Il linguaggio e le chiavi di lettura della prestazione

 


I problemi del linguaggio
I diritti di contrattazione e d’informazione
Il cottimo ed il salario
Lavoro ad economia e lavoro incentivato
Predeterminazione e vincolo
Diritti e doveri
L’esperienza operaia
Ciclo teorico e ciclo reale – Gli eventuali
Le astuzie
Sicurezza, qualità, rispetto del ciclo
La valutazione del rendimento

 

I problemi del linguaggio

Alcuni specialisti dei problemi del linguaggio e della comunicazione, affermano che mediamente la maggioranza degli adulti italiani, dotati di istruzione media inferiore, conosce circa 2000 parole (vocabolario fondamentale).

Per chi come noi aspira a costruire strumenti formativi, farsi comprendere da un grande pubblico (dal nostro pubblico) è indispensabile, ma affrontare un tema specialistico come la cronotecnica e la prestazione di lavoro con, prevalentemente, il solo vocabolario fondamentale non è facile; ci abbiamo provato, se ci siamo riusciti o meno sarà oggetto di giudizio.

Per la comprensione del tema in oggetto le terminologie specifiche non sono indispensabili, ma lo diventano se si tenta di costruire un linguaggio comune; ho quindi ritenuto  dannoso “tradurre” i termini della cronotecnica perché questi sono usati dal padrone, dalle nostre controparti.

Questa scelta mi ha indubbiamente condizionato, per cui richiedo a tutti uno sforzo per memorizzare e padroneggiare questa terminologia specifica.

Ad aggravare queste difficoltà oggettive, più volte  tecnici e capi padronali utilizzano il linguaggio specialistico proprio della cronotecnica, non per favorire l’acquisizione di comuni modelli interpretativi ma per spiazzare, confondere, il delegato sindacale.

Altre volte poi, questo linguaggio specialistico si trasforma, perde i suoi riferimenti certi, diventando  gergo specifico di un gruppo, valido unicamente in quella determinata azienda o realtà, ed aggravando ulteriormente il problema.

Nell’audiovisivo, ed in questo manuale, l’uso di terminologie specifiche sarà quindi mantenuto ed è auspicabile che diventi linguaggio comune, per chi è costretto o interessato a contrattare la prestazione di lavoro.

Senza peccare di presunzione penso anche che questa mia fatica possa diventare uno dei comuni strumenti di lavoro per chi si cimenta sia nella formazione che nella contrattazione sul tema.

A sostegno di queste esigenze, non bisogna dimenticare che gli accordi essendo Regola, devono risultare comprensibili e chiari non solo per chi li sottoscrive ma anche per coloro che li dovranno gestire nel tempo.

Per concludere è preferibile che la terminologia ed il linguaggio siano certi ed il meno equivocabili possibile; porsi quindi l’obiettivo di avere un linguaggio comune tra lavoratrici e lavoratori, sindacalisti, e controparti, mi sembra corretto.

 

I diritti di contrattazione e d’informazione nel sistema di regole

Per Sistema di Regole intendiamo l’insieme delle Leggi, dei Contratti e degli Accordi Aziendali validi in una determinata realtà produttiva; in sostanza si tratta della definizione dei diritti e dei doveri di tutti i soggetti.

Dato che un luogo di lavoro è sempre caratterizzato da conflitti di interessi di varia natura, il Sistema di Regole è l’indicatore principale, sia degli strumenti che le parti hanno a disposizione per affrontarli, che del livello di democrazia  e partecipazione possibile.

Nell’ambito di questo Sistema, i Diritti di Informazione rivestono particolare importanza.

Fare contrattazione seria senza informazioni non è possibile

Contrattare nel merito, ad esempio, l’organizzazione del lavoro e la prestazione, senza una buona base di conoscenza delle cose, e senza poter analiticamente controllare, ed eventualmente contestare l’operato dell’ufficio analisi lavoro, è molto difficile.

Se tutto questo è veritiero e condiviso, è bene attingere dalle principali fonti di informazioni che sono:  

le lavoratrici ed i lavoratori con i loro saperi e le loro esperienze dirette,  

i tecnici ed i capi aziendali,

le indicazioni delle scienze e della tecnica  

Non è superfluo ricordare che le scienze e le tecniche applicate non sono neutre ma, per una parte di esse, sempre caratterizzate da scelte di classe; per evitare quindi di essere spiazzati dagli aspetti tecnici, è fondamentale mantenere sempre al centro l’uomo ed i suoi bisogni, ma senza dimenticare altresì, i condizionamenti oggettivi e gli apporti positivi che tecnica e scienza possono portare.

Per concludere è bene sottolineare che un – sistema di regole – non può porsi l’obiettivo di regolamentare e formalizzare tutto, ma gli aspetti fondamentali devono essere, chiari, comprensibili, operanti e migliorabili.

Il cottimo ed il salario

Il lavoro a cottimo deve essere retribuito maggiormente del lavoro ad economia, questo non lo stabilisce solo il contratto od un accordo aziendale ma la Legge (C.C. Art.2100); come e quanto debba essere l’entità di questo maggior guadagno, definito uno zoccolo minimo (CCNL Art.11), è invece l’accordo tra le parti a stabilirlo.

In conseguenza della contrattazione sindacale degli anni 60 e 70, l’istituto del cottimo sia individuale che di gruppo ha subito delle semplificazioni ed in alcune aziende l’eliminazione, trasformandosi in superminimi collettivi, premi di produzione, ecc.

Purtroppo alcune volte la voce incentivo è sparita dalla busta paga ma non in officina, ed oggi, riaffiorando prepotentemente forme di controllo dei costi unitari e della prestazione lavorativa, l’esigenza di normare il lavoro incentivato si ripresenta.

Nei migliori casi la contrattazione sfocia in accordi che prevedono intrecci originali tra volumi/qualità e salario, negli altri in fumosi “premi performance”, dove la prestazione di lavoro è legata alle fortune o dalle disgrazie dell’azienda e dove i lavoratori perdono il contatto con l’effetto diretto del loro impegno e del loro lavoro.

Il capitolo Salario/Produttività sarà sviluppato nel manuale, in queste schede ci limiteremo a trattare due impostazioni del cottimo di gruppo così com’è emerso nella contrattazione di questo ultimo periodo in molte aziende piemontesi e non solo.

Il cottimo individuale (lire/pezzi) sta sparendo e conseguentemente le aziende tendono a contrattare l’incentivazione come obbligatorietà.

Lo scambio che propongono è semplice “garanzia retributiva” ad un livello medio alto con una sorta di zoccolo al disotto del quale, se ci si andasse per responsabilità aziendali, il guadagno è garantito, in cambio dell’obbligatorietà del rendimento massimo per tutti i diretti cottimisti e gli indiretti collegati.

Tra i numerosi accordi esistenti, esaminiamo quello del 1988 di una media azienda che produce componenti per la FIAT, (vedi allegato).

A prescindere dall’esiguità dal salario l’impostazione è chiara, obbligatorietà del lavoro a 133 di rendimento, garanzia retributiva per tutti a127, possibilità per chi lavora sempre ad incentivo, ma scorporato dal ciclo principale, di splafonare dal 133 fino ad un massimo di 138 di rendimento.

L’oscillazione da 133 a 127 non può mai dipendere dalla volontà dei lavoratori ma è da imputarsi principalmente a disfunzioni tecnico organizzative (mancanza energia, fermate per cause varie, ecc.) e sono solo parzialmente coperte da bolle eventuali.

Qualora queste disfunzioni dovute o al caso od a precise responsabilità aziendali, facessero scendere il rendimento sotto il 127, la retribuzione non potrà scendere sotto il127 che rimane zoccolo garantito in tutti i casi.

Dove questa impostazione non è stata assunta, la curva di incentivazione è più tradizionale, l’incentivazione è facoltativa e conseguentemente, com’è rilevabile in un accordo del 1989 di un’azienda di stampaggio, molta attenzione è stata posta dall’azienda sull’aspetto salariale (770 lire/ora)e dai lavoratori sulle causali ad economia(**), (vedi allegato).

** Per causali ad economia si intendono tutte le cause tecniche e organizzative, non dipendenti dalla volontà dei lavoratori, che determinano un rallentamento o un arresto del lavoro e quindi un abbassamento del rendimento.

Nell’allegato C ne sono elencate alcune che nella proposta aziendale dovevano portare, qualora si fossero verificate, all’azzeramento dell’incentivo.

La contrattazione sindacale ha modificato questa posizione acquisendo i valori citati.

Lavoro ad economia e lavoro incentivato

In termini generali si può affermare che la differenza tra il lavoro a cottimo e ad economia  consiste nel fatto che, nel primo i tempi di lavoro o di esecuzione delle mansioni sono misurati e solitamente incentivati, nel secondo questi non sono determinati né conseguentemente incentivati.

Un’altra differenza, conseguenza di quanto scritto prima,  è data dall’aspetto retributivo; nel lavoro a cottimo, esiste sempre un riferimento salariale relativo ai pezzi o ai volumi prodotti, mentre nel lavoro ad economia, la retribuzione è principalmente incentrata sulle ore di presenza.

E’ facile dedurre che nelle officine di produzione di serie, con mansioni collegate le une alle altre e con poche scorte intermedie, è difficile organizzare la produzione, quantificare gli addetti in relazione ai volumi produttivi attesi, avere una gestione economicamente corretta, senza determinare i tempi di esecuzione.

Ne consegue che la misurazione dei tempi di lavorazione, prima di essere una scelta padronale, è molte volte una conseguenza obbligata dall’organizzazione del lavoro, l’eventuale incentivazione è una scelta padronale il cui livello d’intensità può divenire oggetto di contrattazione sindacale.

Questi aspetti, prima di essere regolamentati dai Contratti Nazionali ed agli accordi aziendali, è definita dalla Legge, che  nel Codice Civile all’Art. n° 2100 sancisce:

 Art. 2100 – (Obbligatorietà del cottimo)

Il prestatore di lavoro deve essere retribuito secondo il     sistema del cottimo, quando, in conseguenza     dell’organizzazione del lavoro, è vincolato all’osservanza di     un determinato ritmo produttivo, o quando la valutazione     della sua prestazione è fatta in base al risultato delle     misurazioni dei tempi di lavorazione.  

Prima di affrontare qualsivoglia contrattazione della prestazione di lavoro, è quindi indispensabile stabilire se  la prestazione di lavoro è misurata o meno, e come questa è retribuita, dato che da queste differenti impostazioni discendono sistemi di regole (comportamentali, disciplinari, retributive, ecc.) profondamente differenti tra di loro.

 

Predeterminazione e vincolo

Con il termine predeterminazione intendiamo indicare che i tempi di esecuzione delle mansioni sono stabiliti dai tecnici aziendali, tramite una delle metriche del lavoro in uso in azienda, o presente sul mercato della cronotecnica.

La metrica assunta in azienda deve essere comunicata ai Sindacati territoriali ed ai rappresentanti sindacali aziendali (CCNL – Disciplina speciale – Parte Prima – Art. 11).

Quando i tempi di esecuzione sono stabiliti senza l’uso di una metrica, la predeterminazione è fatta dai tecnici e dai capi aziendali in base ad usi e consuetudini presenti in azienda.

Con il termine vincolo si intende l’impossibilità per  il lavoratore di variare la velocità d’esecuzione delle mansioni assegnategli, oppure di non poter abbandonare, senza sostituzione, la postazione di lavoro.

Invece la possibilità di variare la velocità d’esecuzione consente brevi pause durante il lavoro, indispensabili per ridurre monotonia e fatica; quando questa non può manifestarsi è sempre una costrizione conseguente all’organizzazione del lavoro ed al tipo di impianto su cui il lavoratore è posizionato.

Quando il vincolo si manifesta, è possibile tentare di contrattare una diversa organizzazione del lavoro, modifiche impiantistiche, pause aggiuntive al normale Fattore Fisiologico, un livello di saturazione più basso; quando tutto questo non riesce, ci si può rifugiare in voci salariali (disagio linea, disagio vincolo) che “paghi” il disagio.

Diritti e Doveri

Quando citiamo Diritti e Doveri intendiamo riferirci all’insieme dei comportamenti possibili di una lavoratrice  e di un lavoratore, derivati dal Sistema di Regole vigenti.

Per Sistema di Regole intendiamo l’insieme delle Leggi, dei Contratti e degli Accordi Aziendali validi in una determinata realtà produttiva.

Oltre a questi, che sono diritti/doveri certi ed esigibili anche tramite la magistratura, esiste tutto un mondo di consuetudini non scritte, che hanno pari valenza rispetto ai comportamenti reali degli uomini e delle donne che lavorano in un’officina.

Dato poi che un luogo di lavoro è sempre caratterizzato da conflitti di interessi di varia natura, il Sistema di Regole è l’indicatore principale, sia degli strumenti che le parti hanno a disposizione per dirimerli, che del livello di democrazia, di tolleranza reciproca,  e di partecipazione possibile.

 

L’esperienza operaia

Chiunque lavorando ha la possibilità di fare esperienza, dato che, mediante l’osservazione, è possibile trarre un insegnamento o una cognizione da ogni atto che si compie.

La costruzione di un’esperienza fruibile nel tempo, da parte dei singoli e dei gruppi,  non è però istintiva come l’azione di respirare o camminare, molto dipende dal contesto tecnico/organizzativo, sociale e politico, in cui la vita lavorativa si svolge; possiamo quindi dire che le esperienze ed il comportamento  sono in funzione dell’ambiente.

A livello della mansione e dell’organizzazione del lavoro, per la lavoratrice ed il lavoratore in officina, l’effetto di questa esperienza è il progressivo ordinamento razionale degli avvenimenti della vita lavorativa, per poter continuamente attingere da questa, al fine di lavorare meglio.

Questa esperienza ha valore di scienza, ed il principale riconoscimento di questa affermazione è riscontrabile proprio nell’opera dei fondatori dell’organizzazione scientifica del lavoro, e nei comportamenti concreti dei tecnici più attenti dell’Analisi Lavoro.

La traduzione operativa di questo riconoscimento consiste principalmente nel furto intellettuale, quasi mai formalmente riconosciuto né tanto meno retribuito, perpetuato dai tecnici aziendali; tramite l’appropriazione dei saperi dei singoli per incamerarli nei cicli ufficiali di lavoro al fine di “migliorarli”.

Oltre all’esperienza sulla mansione e sulla organizzazione del lavoro del proprio ciclo di lavoro, l’esperienza di un contrattatore è più ampia, investendo temi riconducibili alla organizzazione del lavoro dell’intera fabbrica, all’ambiente ed alla sicurezza, alla psicologia del lavoro, alle leggi dello stato, ecc.

Tentando di rispondere alla massima “obiettivi modesti ma raggiungibili”, e ponendoci l’obiettivo di definire gradualmente un modulo formativo di base sulla contrattazione della prestazione di lavoro, abbiamo “limitato” il campo d’indagine al rapporto con la mansione, all’organizzazione del lavoro, ed ai piani di contrattazione su questi temi.

Decidendo di assumere l’esperienza operaia come principale riferimento per il nostro lavoro, abbiamo toccato con mano la grande difficoltà, sia da parte di compagne e compagni, a trasmetterla, che a noi di appropriarci di quello che ci veniva trasmesso.

Le principali difficoltà riscontrate sono state relative alla mancanza di un modello comune di lettura della fabbrica, ed una conseguente difficoltà di dialogo per mancanza di linguaggio comune.

Oltre a queste, la pubblicistica classica (manualistica cronotecnica) e la ricerca sindacale, pur utilissime, non rispondevano appieno alle nostre esigenze di formazione.

Abbiamo capito quindi che l’esperienza operaia è difficile da trasmettere e poco trasmessa, soprattutto  per mancanza di strumenti efficienti ed efficaci.

Se poi, recuperando lustri di indagine e di formazione, analizziamo oggi il nostro contributo sindacale al cambiamento (miglioramento) dell’organizzazione del lavoro, nelle fabbriche dove siamo presenti, ci rendiamo conto che ci è mancata, e per noi risulta quindi necessaria, una teoria del cambiamento fondata su di un modello scientifico che fornisca una guida metodologica di intervento.

Per troppo tempo le esperienze, i comportamenti tra i più validi ed efficaci di tutti gli addetti (lavoratori, tecnici e capi) di tante fabbriche, non sono stati tradotti in indicazioni tecniche e modelli trasmissibili.

Le esperienze costruite si possono anche rapidamente perdere e se non sono strutturate sono difficilmente recuperabili; il ricambio generazionale nelle fabbriche è iniziato e, date le difficoltà di contrattazione ed i cambiamenti degli impianti e dell’organizzazione del lavoro, i rischi di arretramento sono palpabili.

Coscienti di questo, ci siamo vieppiù convinti che la base del nostro percorso formativo sulla contrattazione della prestazione, non possa prescindere dal recupero e dalla traduzione dell’esperienza operaia.

Nel nostro piccolo, e purtroppo con i soli nostri mezzi, cerchiamo oggi di iniziare a colmare questo vuoto, tramite questi prodotti, che tentano la trasmissione di quello che i lavoratori ci hanno insegnato e che speriamo di aver appreso.

Quanto questo nostro lavoro sia efficace allo scopo dichiarato non sta a noi dirlo, abbiamo fatto del nostro meglio all’interno delle nostre compatibilità; quello che riteniamo di aver realizzato è una sorta di strumento, grezzo quanto si vuole, che consente di lasciare un testimone (esperienza strutturata) a chi ci vuole ancora provare.

Ciclo teorico e ciclo reale – Gli eventuali

Un ciclo di lavoro, o più precisamente il metodo di un ciclo dato, è sempre caratterizzato da una impostazione teorica definita dall’analista, e da una interpretazione concreta fatta dal lavoratore, che è quasi sempre diversa.

Nel nostro linguaggio, siamo soliti definire questo divario come: “ciclo teorico” quello dell’analista e “ciclo reale” quello liberamente scelto dall’addetto; considerando l’organizzazione del lavoro nel suo insieme, siamo anche soliti definire il divario con organizzazione formale quella dell’analista e organizzazione informale quella parzialmente scelta dalla lavoratrice o dal lavoratore.

Le motivazioni principali di questo comportamento dell’addetto, sono, molto semplicemente: lavorare meglio, faticare di meno, risparmiare eventualmente del tempo.

Nel tentare di tradurre l’affermazione “lavorare meglio – faticare di meno” non bisogna commettere errori di valutazione dato che non necessariamente lavorare meglio e faticare di meno significa sempre “razionalizzare” ulteriormente il lavoro.

Sicuramente significa personalizzare, nell’ambito del possibile, la mansione; questa personalizzazione può portare a razionalizzare il ciclo teorico ma, a volte, può anche portare a modifiche apparentemente poco razionali, se valutare con un metro rigido, prevalentemente cronotecnico, o basato sul solo dispendio energetico.

In breve, dato che le lavoratrici ed i lavoratori sono diversi tra di loro ed un lavoratore medio non esiste, bisogna evitare di commettere l’errore del classico approccio tayloristico, dell’one best way (il percorso migliore), dato che rimane vero che non esiste un modo unico, e migliore di  tutti gli altri, di fare una cosa.

La dimostrazione che questa dinamica è veritiera la si può ricercare proprio nel comportamento degli analisti.

Infatti il furto intellettuale dell’esperienza operaia, consistente nell’incamerare nei cicli quanto i lavoratori inventano o perfezionano, è diffuso ma non assoluto o totale, in quanto l’analista si limita ad assorbire quanto è funzionale alla riduzione del costo unitario ed in relazione al ciclo teorico ed all’organizzazione formale.

Sintetizzando quanto scritto

 

Come comportarsi allora in termini di contrattazione quando si devono definire i metodi di lavoro?

Il consiglio che deriva dalla nostra esperienza, è quello di definire con certezza dei confini, o meglio delle regole del gioco certe, con i tecnici aziendali.

Sulla prestazione è bene tentare di ottenere che i metodi, e di riflesso i tempi di esecuzione ufficiali, siamo razionali,   i più semplici possibile ed eseguibili da tutti i lavoratori, siano essi esperti o meno, capaci o meno capaci, giovani o anziani, forti o deboli, ecc.

E’ ormai largamente dimostrato che definire metodi e tempi sugli operai migliori non solo  non è corretto ma si trasforma sempre in una fonte di guai per tutti, perché anche i migliori non sempre sono capaci o disposti a mantenere per tutta la giornata lavorativa metodi e tempi che in determinati momenti, e sempre in funzione di un vantaggio godibile, realizzano.

L’ideale dell’uomo giusto al posto giusto è sicuramente da perseguire e molto si può fare in questa direzione operando soprattutto sul – posto giusto –, ma è sicuramente un mito ottenere efficienza, produttività e qualità diffusa, tramite questa via.

Sulla ricerca dell’uomo medio, dell’abilità media, le controversie non finiscono mai quindi è bene chiarire che esistono,  in funzione del sistema usato, due centralità.   

Nei modelli basati sulla media cronometrica la centralità è la rilevazione dei tempi ed il giudizio d’efficienza o di velocità d’esecuzione espresso su questi, quindi la scelta dei soggetti su cui rilevare i tempi è fondamentale.

Nei modelli basati invece sui sistemi tabellari (M.T.M., T.M.C. e simili), l’elemento centrale della controversia si sposta, al terreno del metodo (come fare il lavoro), dato che è su questo che si assegneranno i tempi di esecuzione con procedure “oggettive”.   

Dato che le procedure che utilizzano i sistemi tabellari si stanno diffondendo sempre più, la centralità del confronto è proprio sul metodo.

Meglio quindi stabilire con le controparti regole certe  per regolamentare i conflitti su questo problema, definendo, nei cicli teorici e nelle organizzazioni formali,  che  le lavoratrici ed i lavoratori fisicamente più fortunati e più volenterosi siano parzialmente avvantaggiati, e gli altri siano più soggetti ad impegno senza essere sfruttati.

La prima difesa quindi della condizione di lavoro, parte proprio dalla definizione del metodo che, come abbiamo già scritto, deve essere eseguibile dal meno capace del gruppo.

La verifica è abbastanza semplice; è sufficiente controllare che una mansione, a prescindere dagli aspetti mnemonici e di velocità d’esecuzione, sia rapidamente eseguibile da una donna o un uomo, nuovo assunto, delegato, o lavoratore che non abbia mai lavorato su quella postazione, per affermare che i movimenti richiesti non sono assurdi.

Naturalmente il problema delle addette e degli addetti inidonei al ciclo o a parte di esso, necessitano di altre soluzioni che esploreremo nel manuale.

Gli eventuali

In questa fase, estrema attenzione è da dedicare all’indagine sugli accidenti al ciclo che possono presentarsi (mancanza di energia, pezzi non conformi, attrezzature difettose, ritardi, ecc.).

Questi accidenti, solitamente chiamati eventuali o bolle eventuali giustificano sia il lavoratore che il capo, per il non raggiungimento del rendimento previsto.

Quando gli accidenti sono casuali è giusto che rientrino negli eventuali, quando però questi superano un certa soglia, tendono a diventare strutturali al ciclo ed allora devono essere registrati nel ciclo stesso e conteggiati di conseguenza.

In sostanza il lavoro richiesto dal capo all’addetto deve trovare precisa corrispondenza nel ciclo ufficiale dato che quello che non è conteggiato non si esegue.

 

Le astuzie

Per affrontare il tema delle astuzie nell’ambito della prestazione di lavoro, bisogna prima di tutto definire che cosa sono, per passare poi a suddividerle tra quelle lecite, quelle tollerate, e quelle dannose o vietate.

Secondo i tecnici aziendali, un’astuzia è una violazione   delle norme e delle procedure stabilite; quindi, in una visione  teoricamente e rigidamente tayloristica dell’organizzazione del lavoro, sono tutte proibite e/o da  proibire; è ovvio quindi, che queste sono una significativa parte di quello che abbiamo precedentemente definito come, divario tra previsione e realtà e tra organizzazione formale ed informale.

Gli operai le usano tutte, e delimitare in modo preciso i confini tra le une e le altre non sempre è facile, perché più volte si intrecciano.

Per grandi linee, quelle che i capi ed i tecnici tacitamente accettano come lecite, sono tutte quelle che in ultima analisi risolvono, o aiutano a risolvere, limiti tecnologici e/o organizzativi presenti.

Quelle tollerate sono quelle che, pur violando quanto prescritto nel metodo o nei tempi, facilitano l’accettazione, da parte dei lavoratori, dei tempi unitari imposti, risolvono intoppi all’organizzazione del lavoro in un tratto di ciclo dato, evitano aggravi dei tempi ciclo e dei costi, ecc.

Quelle dannose e quindi vietate, sono quelle che producono scompensi organizzativi al flusso produttivo, e soprattutto ledono la qualità del prodotto o la sicurezza antinfortunistica degli addetti.

I comportamenti aziendali sono rapportati a questa classificazione e su questo si potrebbe scrivere un’intera ricerca,  il problema quindi sarà maggiormente analizzato nel manuale; per queste schede, fondamentale è capire che le astuzie esistono perché, se ci si limitasse a seguire in modo rigido quanto definito dagli analisti  la fabbrica si fermerebbe, dato che il divario tra previsione e realtà è sempre presente, seppure con una entità che varia da ciclo a ciclo.

Visto che questi effetti si possono ritenere oggettivi, l’interrogativo rimane il solito: che fare in termini di contrattazione?

Far diventare questi problemi oggetto di contrattazione formale è difficile e, in un contesto tayloristico, non interessa a nessuno né ai lavoratori, né alle aziende.

Non interessa alle aziende per diversi motivi, il primo è relativo alla loro presunzione tayloristica, difficilmente accettano che semplici esecutori siano in grado di mettere in discussione, migliorare quanto elaborato dall’ufficio analisi lavoro aziendale; il secondo e relativo ai conflitti tra le varie responsabilità (enti e gerarchie) presenti, ed i relativi interessi.

Non bisogna dimenticare che un ciclo formalizzato non è solo un elaborato che ha ricadute su quantità e qualità ma è un riferimento generale per molti (analisti, gerarchia, responsabili della sicurezza, servizio personale, ecc.).

All’interno poi di questa logica, è risaputo che ognuno calibra i propri obiettivi e ricava, o tenta di ricavare, i propri margini di elasticità e informalità; rendere quindi “formalmente elastici” i cicli non è gradito a nessun gradino della scala gerarchica perché, al limite, le elasticità vengono ricercate, tollerate o vietate, in ragione di esigenze personali, scambi di favori o altre pratiche aziendali fortemente discutibili.

Non interessa poi alle operaie ed agli operai, perché le astuzie sono una sorta di piccolo tesoro da utilizzare e da non farsi rubare, che viene trasmesso da addetto ad addetto e, più volte, è un elemento di cemento della solidarietà all’interno del gruppo e tra i gruppi operai.

Quando si è coscienti che questi “margini” sulla prestazione sono una invenzione, una scoperta propria dei lavoratori, regalarli o farseli scippare produce sempre proteste e più volte conflitto; venderli o scambiarli è sempre possibile, ma tutto dipende dal con che cosa e dal quanto; in questo caso però lo scenario si amplia, coinvolgendo non soltanto la prestazione pura e semplice ma anche il modello di contrattazione ed il sistema di regole interno all’azienda, e tutto diventa più rischioso anche se stimolante.

Una delle ragioni, per motivare la resistenza delle aziende a rendere trasparenti nella loro interezza i cicli di lavorazione e renderli pubblici tra i lavoratori, è anche da ricercarsi in questa direzione.

Quindi una sorta di gioco delle parti dove tutti sanno, nessuno dice, e tutti barano, ma dove altresì, paradossalmente, tutti sono interessati a che i cicli formali siano presenti ed accettati.

Quali comportamenti tenere quindi ai tavoli di trattativa?

Una ricetta è difficile da trasmettere perché questa non può essere altro che il frutto di una ricca esperienza di contrattazione sul tema.

Gli elementi che entrano in gioco sono:

La qualità iniziale del ciclo formalmente definito.

La quantità e la qualità delle astuzie prodotte, suddivise tra lecite, tollerate, e dannose.  

L’impatto reale che queste astuzie hanno in relazione al ciclo (qualità soprattutto) e nei confronti della normale vita di lavoro d’officina (disciplina, criteri d’utilizzo dei margini di tempo libero ricavato, ecc.).

La gestibilità del sistema di regole continuamente ridefinito.

La soluzione passa attraverso l’equilibrio che si riesce a trovare tra i vari punti nel confronto dialettico tra i soggetti principali lavoratrici/ori, delegati, tecnici e capi.  

Rimane sottinteso che nel divenire della contrattazione dinamica dei cicli di lavoro, la cosa da non dimenticare mai, è sempre la figura operaia del meno abile e del meno capace (uomo o donna che sia), dato che questi deve poter continuare a lavorare senza che questo procuri nocumento alla sua salute ed alla sua integrità psicofisica.

Il giudizio finale deve naturalmente essere sempre prerogativa del lavoratore interessato e del gruppo nel quale questo è inserito.

Sicurezza, qualità, rispetto del ciclo

Questi tre titoli non sono altro che specifiche del capitolo precedente; dato che rivestono particolare importanza, è bene rinforzarne i concetti.

Il richiamo alla sicurezza nell’audiovisivo è continuo, perché è assurdo rischiare un infortunio per riuscire a fare la produzione richiesta, ed è ancora più assurdo correre lo stesso rischio per farla in minor tempo.

Anche l’organizzazione informale e le astuzie non possono essere gravate da rischi infortunistici dato che, oltre ad essere controproducenti, rientrerebbero entrambe, come già scritto, in quelle dannose e vietate.

Per quanto riguarda il rispetto del ciclo, questo è da intendersi principalmente come rispetto delle varie fasi dell’avanzamento del prodotto, (ad esempio: non intasare il proprio lavoro e non far mancare i pezzi al tratto di ciclo successivo), in sostanza ricercare più vantaggi possibili nel proprio lavoro senza che questo procuri danno a chi sta a monte ed a valle della propria postazione lavorativa.

Per la qualità questa è da ricercare sempre, non solo per la semplice considerazione che dato che si lavora è più gratificante che il risultato sia il migliore possibile, ma soprattutto perché il tema della qualità è usabile come “un’arma”   nei confronti dei tecnici e dei capi, dato che solo “lavorando bene” è possibile produrre pezzi buoni.

Il richiamo all’uso dell’intelligenza è da intendersi come – intelligenza delle varie situazioni, buon senso, esperienza -; tutti i punti presenti nel precedente capitolo ed in questo devono passare attraverso questo vaglio.

La valutazione del rendimento

 

Nei rarissimi casi in cui i tempi di lavorazione NON sono formalmente misurati, il sistema di regole sulla prestazione è blando, dato che,  a questi lavoratori è richiesto di lavorare dall’inizio alla fine dei turni di lavoro senza obiettivi produttivi stabiliti.

In queste situazioni esistono quindi pochi obblighi ma anche poche difese, dato che il tutto è incentrato su un regime di usi e consuetudini non scritte, che possono sovrintendere sia a condizioni di lavoro normali che a regimi di arbitri sia padronali che operai, con tutti i guasti che situazioni di questo tipo possono determinare.

Nelle realtà in cui i tempi di esecuzione SONO misurati, si parte da una base 100 su cui si calcola l’indice di rendimento incentivato.

La base 100 è una sorta di confine tra il lavoro misurato/determinato, che deve sempre essere retribuito al minimo di cottimo data la predeterminazione dei tempi, e l’incentivazione vera e propria che parte dal rendimento 101 e prosegue; l’entità dell’incentivazione è la risultanza o dell’applicazione piena di una metrica, o di un accordo tra le parti.

In presenza di metriche sia cronometriche che tabellari solitamente il rendimento si attesta a 133 che recupera l’incremento di +1/3 nella velocità d’esecuzione, cioè ad esempio, 80 minuti di lavoro eseguiti in 60 minuti, o altre consuetudini (75 – 100 // 100 – 133,33).

Da questa premessa risulta prioritario indagare chi, e tramite quali criteri e strumenti, decide che un tempo di esecuzione è a 100.

La valutazione del rendimento di un lavoratore (o giudizio sulla velocità di esecuzione) nei sistemi cronometrici, è fatta da un cronometrista, mentre nei sistemi tabellari il giudizio è già compreso nei tempi elencati nelle tabelle internazionali.

Questo giudizio è da sempre l’aspetto più controverso della contrattazione della prestazione di lavoro, dato che si basa su convenzioni, criteri interpretativi o valutazioni di un gruppo di esperti allenati nell’uso di una tecnica comune.

Questa tecnica è scientificamente discutibile perché lascia larghi spazi a valutazioni largamente influenzabili sia dalla soggettività che da errate interpretazioni o  usi strumentali, riconducibili alla sfera degli interessi padronali o dell’impresa.

Da queste considerazioni, è possibile affermare che

La valutazione del rendimento consiste  nel raffronto mentale compiuto dell’analista fra la prestazione dell’operatore che egli osserva  e LA SUA IDEA  di una prestazione standard relativa ad un determinato metodo.

Ulteriori criteri e strumenti usati dai cronometristi per determinare il rendimento normale (base 100), per i lavoratori operanti in climi temperati, è dato da un lavoratore maschio di fisico medio, che cammini in linea retta su di un terreno piano e senza portare pesi, alla velocità di tre miglia orarie (km4,828).

Un’altra misura pratica del rendimento normale è data dalla distribuzione di un mazzo di carte (52 pezzi) in quattro pile uguali poste ai quattro angoli di un quadrato di 30 cm di lato, impiegando 30 secondi.

Da questi ulteriori criteri è possibile affermare che secondo la cronotecnica:

Il rendimento normale è il ritmo lavorativo di un operaio  medio, che lavora  sotto una buona guida, ma  senza lo stimolo  di un  sistema di retribuzione ad  incentivo. Questo rendimento deve poter essere conservato  senza  eccessiva fatica  fisica o  mentale ed è  caratterizzato dall’impiego costante di un ragionevole sforzo.

Come ulteriore criterio generale per valutare la base 100 di rendimento, è possibile assumere il fatto che questa deve poter essere incrementata mediamente del 20 – 35 % contrattando una scala di incentivazione retributiva ed un insieme di maggiorazioni per effetti stancanti, senza che questo procuri nocumento alla salute dei lavoratori coinvolti.

Questa ultima formulazione è una sorta di giusta ancora di salvezza che giuristi, tecnici e contrattatori continuamente richiamano.

Che il lavoro incentivato presupponga lo scambio più fatica in cambio di più salario è implicito, come pure che l’equilibrio scaturisca dalla contrattazione tra lavoratori e padronato.

Nel merito però della correttezza scientifica che un incremento della fatica del più 20-35% non procuri danni alla salute, la manualistica cronotecnica non fornisce dimostrazioni, ma si limita a dire che questi valori sono la risultanza di approfonditi studi di fisiologia umana.

Questi studi sicuramente esisteranno forse tradotti anche in italiano ma, pur cercando attentamente, non abbiamo trovato quasi nulla. L’unica testo che tratta l’argomento è una pubblicazione di un importante istituto tedesco di ricerca che purtroppo abbiamo avuto difficoltà a consultare.

In generale però, uno dei riferimenti più espliciti è quello relativo al metabolismo basale che, assunta una base 100 durante il lavoro normale, alcuni medici del lavoro hanno stimato che un incremento di circa un terzo della fatica, non sia lesivo dell’integrità psicofisica dei lavoratori.

A prescindere dalle giuste discussioni che un tema come questo potrebbe produrre (uomo medio, giovani e meno giovani, differenze di genere, ecc.), la nostra opinione è quella che siano i lavoratori a decidere tramite l’unico strumento possibile che rimane quello della validazione consensuale abbinata alle difficoltà della contrattazione.

 

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