Commento all’accordo del 13 luglio 1981
Il gran numero di militanti sindacali sospesi in Cassa integrazione aveva dato origine a un nuovo soggetto sindacale, il Coordinamento Lavoratori Fiat in Cassa Integrazione, che per tutto il periodo in cui durò la Cassa integrazione pose in essere un’iniziativa continua di presenza e mobilitazione dei lavoratori sospesi. Si trattava di una forma di autorganizzazione costituita da una struttura composta da 15-20 militanti a tempo pieno, che poteva contare su un’area occasionale di altri 30-60 persone quotidianamente disponibili in caso di necessità. Questa struttura dimostrò che riusciva a mobilitare migliaia di lavoratori in cassa integrazione nelle diverse manifestazioni e iniziative che organizzò nella città di Torino dal 1981 al 1986.
Il rapporto tra la Flm e il Coordinamento dei “cassaintegrati” si dimostrò spesso conflittuale per oggettive differenze d’impostazione: da una parte il sindacato che valutava realisticamente i rapporti contrattuali e comprendeva che la situazione di crisi non consentiva il rientro immediato dei sospesi, mentre aveva la necessità di “riagganciare” i lavoratori all’interno della fabbrica; dall’altra il Coordinamento che, nel suo ruolo di rappresentanza, era “istituzionalmente” tenuto a difendere rigidamente le garanzie contenute negli accordi in termini di rientro al lavoro. È necessario considerare che, con il prolungarsi della crisi successivamente all’ottobre del 1980, la Fiat aveva chiuso successivamente il Lingotto e la Materferro, ceduto la Teksid Acciai alle Partecipazioni Statali, accollandosi però 2.100 lavoratori eccedenti: complessivamente il numero dei lavoratori Fiat in Cassa integrazione era salito a oltre 30.000, mentre in provincia di Torino se ne contavano almeno 55.000. Tra i lavoratori in forza e la massa crescente dei cassaintegrati si registrava spesso una contrapposizione fondata su ragioni egoistiche spesso alimentata dalle aziende e dalla stampa, che preferiva speculare sugli aspetti deteriori del lavoro “in nero” dei cassaintegrati, piuttosto che sugli aspetti di sofferenza che determinava quella condizione di incertezza e di basso reddito. In definitiva le differenze tra il sindacato e il Coordinamento dei cassaintegrati erano determinate da motivi oggettivi, ma è anche necessario considerare che all’interno del sindacato torinese le vicende della vertenza Fiat avevano accentuato un processo involutivo, di “ritorno a casa” delle singole componenti sindacali.
Successivamente al 1980 il primo accordo di verifica importante fu quello del 13 luglio 1981, dove fu concordata il ricorso alla mobilità esterna, che doveva riguardare 7.437 lavoratori. Nello stesso accordo fu definito anche un aumento della quattordicesima erogazione, che fu portata a 500.000 lire per il 1981 e 520.000 nel 1982 (tali cifre riguardavano i lavoratori fino alla 5^ categoria, mentre per le categorie superiori avevano un’erogazione superiore). In tal modo il sindacato puntava a dare una risposta sia ai problemi della crisi aziendale e della collocazione dei cassaintegrati, sia ai lavoratori attivi.
Lo strumento della mobilità fallì completamente: solamente 29 lavoratori furono collocati, per l’aggravarsi della situazione di crisi, ma anche per la propaganda negativa fatta dalla Fiat durante la vertenza dell’ottobre 1980 nei confronti dei lavoratori sospesi, accusati sostanzialmente di essere degli “assenteisti” e “scansafatiche”; ciò comportò una sostanziale diffidenza da parte delle aziende private nei confronti dei cassaintegrati Fiat anche quando si resero disponibili alcune limitate possibilità occupazionali. La mobilità esterna ebbe un limitato successo solamente per quanto riguarda gli ingressi nella Pubblica Amministrazione, dove alla fine, con un’apposita legge, furono impiegati circa 1.300 lavoratori.