Seminario “Stato e controllo dell’economia”
Paolo Franco Segretario della FIOM di Torino
Intervento fatto durante il Seminario “Stato e Controllo dell’economia”. Torino 5 aprile 1976. Atti pubblicati da De Donato. E’ una testimonianza che fa comprendere la grande preoccupazione, ma anche la grande incertezza, presenti nel sindacato per la profondità e la durezza della crisi economica
Una riflessione complessiva, nella teoria dello Stato e nella teoria economica, non può che partire da una valutazione della dimensione della crisi in atto e va comunque raccordata alla dimensione dello scontro che abbiamo di fronte. Mi sembra che solo questo sia un modo efficace, da una parte, di non eludere una serie di questioni che abbiamo quotidianamente presenti, dall’altra, di mantenere permanentemente — quale terreno di verifica — un raccordo con la crescita di un movimento di massa in grado di indirizzare in un modo o nell’altro la trasformazione della società.
Da questo punto di vista, a me pare che, piuttosto che riflettere in termini astratti su quale debba essere lo Stato che vogliamo proporre, dovremmo interrogarci su come fare a conquistare una partecipazione reale di grandi masse che sia già un fatto di potere; cioè che sia collegata agli obiettivi e ai contenuti che intendiamo proporci proprio perché intendiamo cambiare in una precisa direzione la società. Quello che proponiamo è, quindi, una battaglia per la trasformazione dello Stato funzionale a una serie di obiettivi, ma che implica una determinata concezione dei rapporti di forza e dei rapporti politici complessivi nella società e nel paese.
Quando abbiamo costruito e abbiamo creato nel movimento, con la partecipazione dei lavoratori, in grandi lotte di massa i consigli di fabbrica e delegati, non l’abbiamo mai fatto spinti da una concezione astratta della democrazia, ma convinti che partecipazione e democrazia significavano, intanto, accrescere il potere dei lavoratori e della classe operaia nei rapporti col padrone e modificare a favore della classe operaia la dimensione concreta, contingente, storicamente determinata dello scontro di classe. A me pare che questo sia il modo in cui affrontare le questioni che oggi abbiamo di fronte.
Affrontando il tema della crisi economica e delle sue dimensioni, in modo vario è stato posto l’accento sul fatto che si tratta di una crisi strutturale di enormi dimensioni che comporta, a tempi più o meno ristretti, una modifica di grande portata dei rapporti di forza mondiali, non solo tra le classi ma anche fra i paesi, e sul fatto che tutto questo determina un intreccio strettissimo fra crisi politica e crisi economica con caratteristiche specifiche diverse nei diversi paesi e nei diversi Stati. Non possiamo dimenticare questo quadro complessivo quando avanziamo analisi e proposte.
Val la pena almeno di ricordare due dati. Nei prossimi anni, soltanto da qui al 1981, rispetto a un tasso medio di incremento del commercio mondiale, che negli anni fino al 1973-74 è stato dell’8%, sia i problemi della bilancia dei pagamenti sia le politiche nazionali, che porteranno alla ricerca di soluzioni interne proprio per ovviare a determinate componenti dei rapporti internazionali che rappresentano oggettivamente dei vincoli, comporteranno praticamente una diminuzione del 50% di tale tasso di incremento. Rispetto ad un ordine di incremento dell’8% annuo del commercio mondiale si passerà al 4-5% nei prossimi cinque anni, almeno nelle previsioni correnti delle grandi imprese e delle grandi società multinazionali. Vi saranno inevitabili ripercussioni di carattere strutturale sui rapporti economici mondiali, per quanto riguarda le materie prime, l’energia, i rapporti fra paesi sviluppati e paesi sottosviluppati, fra l’insieme dei paesi sviluppati e i paesi socialisti, all’interno degli stessi paesi sviluppati dell’area occidentale, con una modifica dei rapporti di forza enorme, se a questo dato accompagniamo il fatto che, sempre nei prossimi cinque anni, avremo di fronte una prospettiva di stagnazione dell’economia (almeno per quello che riguarda la mancanza di prospettive valide di incremento dell’occupazione) si determinerà un aumento delle disponibilità di forza-lavoro che, almeno ai tassi più o meno correnti di aumento della popolazione, può essere valutata attorno ai 150 milioni di persone. Anche se concentrati fondamentalmente nelle aree asiatiche, i problemi sono giganteschi anche per l’Europa e per gli Stati Uniti. Per gli Stati Uniti la prospettiva è quella dell’aumento di 8-9-10 milioni di potenziale forza-lavoro.
A partire da qui ritorniamo alla necessità di una riflessione sugli obiettivi che il movimento deve proporsi e conquistare per essere all’altezza della grande accelerazione dei problemi politici legati ad una tale dimensione della crisi, economica e politica assieme, che stiamo attraversando. Tutto questo, a cui si è accennato, comporterà anche fuori dell’Europa, fuori di un paese come l’Italia (dove peraltro questi dati possono essere accelerati, aggravati da una crisi politica particolarmente grave e da una serie di scelte per la gestione dell’economia che hanno accumulato anche degli sbagli di notevole entità) una prospettiva di trasformazione politica dei punti di riferimento anche di grande portata, o che, almeno, non riusciamo a valutare in tutta la loro complessità. Spaventa il solo pensare che cosa potrà succedere da qui a cinque anni di fronte a una sostanziale stagnazione dell’occupazione ed alla necessità di una politica, da parte del movimento operaio, capace di affrontare i temi proposti anche da una modifica strutturale dell’offerta del lavoro nel nostro paese. Ci troveremo di fronte ad un aumento diffuso, sostanziale, della scolarità nel momento in cui vi sarà una stagnazione dell’occupazione complessiva, vi sarà dunque una modifica, anche sociale, del ruolo dei tecnici, degli impiegati, nel rapporto con gli operai occupati. Tutto questo richiede una capacità da parte nostra, di trattare, in termini spregiudicati, il problema della qualità dello sviluppo.
Viene dunque in primo piano la necessità di una trasformazione qualitativa dell’apparato produttivo italiano, che sia funzionale ad una politica di collocazione internazionale diversa del paese e in grado nello stesso tempo di offrire delle condizioni diverse, più ravvicinate e realistiche, per lo sviluppo del paese e, contemporaneamente, di offrire le condizioni più credibili per una qualità di sviluppo differente a un insieme di paesi con cui l’Italia deve progressivamente e più efficacemente collegarsi. Questa diventa una condizione attraverso la quale è possibile, non solo imporre al positivo una battaglia per la trasformazione delle strutture produttive del paese ma segnare un successo su tutti gli obiettivi di occupazione e di sviluppo, ma anche dare corpo ad una battaglia per la trasformazione dello Stato e per la modifica della società, intesa come intreccio tra affermazione di obiettivi di occupazione e di sviluppo e modifica delle strutture statali.
Per questo a mio parere dovremmo riflettere un po’ di più su una serie di interrogativi che sono di fronte al movimento oggi. Il movimento sindacale ha registrato una serie di successi nel contenere l’attacco violentissimo che è stato sferrato, a partire dal settembre-ottobre 1975, dalle grandi concentrazioni nazionali, italiane e non italiane, ma nello stesso tempo l’intero movimento operaio non è stato in grado di affermare, di imporre, una dinamica diversa alla questione dell’economia. È una questione a cui bisogna rispondere subito, in tempi strettissimi, perché se non lo facciamo, riuscendo ad imporre una svolta sia pure parziale, certamente la stretta creditizia di fronte alla quale ci troviamo, i condizionamenti internazionali e lo stato attuale dei rapporti politici ed economici internazionali renderanno la situazione cosi grave da trasformare difficoltà in ‘ vincoli oggettivi ‘ con il rischio che si riproponga nei prossimi mesi un attacco altrettanto grave come quello che in parte abbiamo contenuto nei mesi passati. E se si ripresenta un deciso attacco alla occupazione, se i padroni cominciano di nuovo a licenziare, a sfasciare fabbriche, a partire dalle piccole e medie, senza che si siano imposte linee di tendenza in grado di ribaltare questa logica, non c’è dubbio che tutti i ragionamenti che andiamo proponendo, rispetto all’intreccio fra economia e Stato, per la affermazione di una logica diversa di occupazione e sviluppo, per la modifica dello Stato, per affermare lo Stato come protagonista nello indirizzare i processi economici, ci saranno comunque assai in ritardo rispetto alla realtà dei processi, al modo come si svolgono e come precipitano.
Su un altro versante delle questioni, voglio dire che mi sembra anche insufficiente centrare tutte le carte sulla necessità di una ‘ provocazione ‘ salariale. Mi pare, infatti, (ho presente anche l’ultimo dibattito tra Napoleoni e Modigliani) che una serie di riflessioni, pur giuste sul valore che ha lo scontro salariale, rispetto alla dimensione dei problemi economici e politici che abbiamo di fronte, siano tutto sommato del tutto insufficienti a governare lo scontro che dobbiamo affrontare e che dobbiamo avere la capacità di proporre in termini di movimento di massa. Se oggi noi andiamo tra i lavoratori, nei consigli di fabbrica, o pratichiamo l’insieme delle strutture di partecipazione, o di potere, e di direzione del movimento su cui si regge lo scontro (su cui può reggersi e può andare avanti lo scontro), per proporre un’alternativa di tale complessità politica semplicemente facendo leva sulla provocazione salariale, sono convinto che avremo fallito già in partenza. Credo, d’altra parte, che bisogna spingere in avanti l’analisi, le valutazioni, le riflessioni, per non fermarsi esclusivamente a questo dato.
Ritornando all’interrogativo che ponevo prima, sorgono una serie di questioni che rimandano alla necessità, di oggi e non di domani, di incidere sulle scelte politiche dei grandi gruppi che stanno operando processi di ristrutturazione di grande entità e di grandissima dimensione. Basti pensare a quello che succede all’interno della Fiat, dove la ristrutturazione in termini finanziari — che passa attraverso la costituzione delle holdings e delle subholdings, l’autonomia finanziaria e produttiva che assumono diversi comparti produttivi — ha dei riflessi di enorme portata rispetto alle condizioni di lavoro, ai processi di divisione di lavoro fra i vari stabilimenti in Italia, alla collocazione complessiva di questa multinazionale in una strategia internazionale. Abbiamo un grave ritardo nell’affrontare questa tematica; registriamo una sorta di scollamento con ciò che matura all’interno del sindacato, degli Enti locali, e con la volontà, che matura all’interno delle forze politiche, di affrontare questo nodo come uno dei nodi centrali.
Proprio a partire dai processi di ristrutturazione che abbiamo di fronte, è possibile in qualche modo, se, non a condizionare completamente, certamente a incidere almeno in parte sulle scelte dei grandi complessi, con risultati che vadano nella direzione indicata dal movimento operaio per quello che riguarda il Mezzogiorno, l’occupazione e le scelte, magari parziali, di diversificazione produttiva. Tuttavia permane lo scollamento a cui facevo cenno, che ci impedisce di trovare un fronte più vasto e sollecita scelte politiche che richiamano il movimento sindacale, gli Enti locali, le forze politiche a capire cosa significa condizionare, per esempio, le scelte della Fiat, partendo dai contenuti, dagli obiettivi. Vale a dire: quali livelli si propongono in merito all’occupazione; cosa pensiamo che la Fiat debba fare nel settore dell’auto, del veicolo industriale, oppure nei settori dell’energia? Queste sono cose che noi abbiamo la possibilità di puntualizzare in termini concreti, ma queste sono anche le cose che devono diventare obiettivo assieme al movimento sindacale, delle forze politiche, dei partiti, in particolare dei partiti della sinistra, e degli Enti locali.
Un altro problema — discusso a lungo anche all’assemblea di Rimini della Federazione Cgil-Cisl-Uil — è quindi, appunto, quello relativo alla capacità del movimento operaio di intervenire sul piano dell’organizzazione settoriale della produzione. Certo, per l’esigenza di affermare un controllo sui processi di ristrutturazione e sull’economia da parte del movimento sono al centro dello scontro in atto. Obiettivi di controllo e di nuovi poteri, contenuti nella piattaforma contrattuale. Però i settori sono una dimensione della struttura economica che ci consente di identificare quei ritardi di produttività davanti a mancate innovazioni tecnologiche, alla dipendenza scientifica e tecnologica da altri paesi, che possono di per sé costituire dei momenti in cui fare agire delle forme, anche parziali, di intervento programmatorio. Cosi si definisce una responsabilità degli Enti locali e si precisa una responsabilità, nella politica economica dello Stato, su cui insistere e su cui fare leva. Tuttavia, se ci fermiamo ai grandi gruppi è certo che possiamo pensare di incidere soltanto sulle scelte delle grandi concentrazioni economiche e finanziarie come la Fiat e Olivetti. Ma la Fiat e Olivetti di per sé non esauriscono l’insieme della struttura produttiva di un paese: resta tutto l’insieme dei rapporti fra la grande concentrazione, le piccole aziende, i settori indotti, ecc.
All’interno di un settore, o di un comparto produttivo, ci sono certamente una serie di punti che rappresentano dei momenti di strozzatura, di ritardo: freni oggettivi all’ulteriore sviluppo, oppure all’ulteriore possibilità di diversificazione produttiva. Nasce da qui la necessità da parte del movimento sindacale, come del movimento politico della classe operaia, di capire quali compiti toccano su questo terreno agli Enti locali, alla Regione, ai comprensori, allo Stato articolato in nuovi rapporti. Se vogliamo che lo Stato intervenga nei processi di ristrutturazione dell’economia, intanto è da questo livello che bisogna cominciare, perché altrimenti qualsiasi volontà di utilizzare lo strumento del credito, o di utilizzare un momento di aggregazione e di concentrazione della domanda, di individuare sbocchi di mercato nel nostro paese o in altri paesi, e nuovi rapporti con i paesi sottosviluppati o con i paesi socialisti, non si collega ad elementi concreti e reali. Dobbiamo cominciare, da una parte, a capire cosa significa trasformazione dello Stato e intervento dello Stato nell’economia, e, dall’altra parte, quali sono le possibilità di approfondimento di tale prospettiva, intanto nella pratica, ma anche nella teoria economica.
Lo stesso vale per la ‘ logica dell’impresa ‘. Su questa questione, ogni giorno, il movimento operaio è sottoposto alla pressione della propaganda e degli attacchi del padronato, del governo e delle forze moderate. Molti nutrono la speranza (alimentata però anche da nostre contraddizioni) di poter agire, nel momento in cui cambia la formula di governo e il movimento operaio nel suo complesso diventa forza di governo, sulla produttività di sistema senza indicare concretamente sin da oggi i punti di attacco per realizzare una mobilitazione di massa per una possibile potenziale trasformazione dell’economia.
Assume, cosi, un’importanza decisiva la questione della produttività o della efficienza che in parte ho affrontato per i settori. Credo sia necessaria, però, una risposta più efficace e una capacità di individuare punti di riferimento, anche politici, di maggiore e più ampio respiro. Da una parte, bisogna sconfiggere il tentativo del grande padronato, dell’insieme delle forze moderate, di condizionare il movimento operaio all’accettazione subalterna della logica dell’impresa in quanto tale; dall’altra, dobbiamo avere anche la forza di ribaltare, rispetto all’esigenza di una maggiore produttività, la concezione tradizionale su cui il padronato si va muovendo, ma su cui, soprattutto, malgrado i successi registrati dalla classe operaia in questi anni, si è riproposto un attacco in grande stile contro il sindacato e il movimento operaio, non solo sul salario, ma sull’insieme dei problemi legati alla organizzazione del lavoro. Credo che occorra (qui mi fermo soltanto all’enunciazione delle questioni) riproporre i problemi dell’efficienza in modo alternativo a come il padronato li viene proponendo. Qualsiasi recupero di v efficienza e di produttività è possibile in una prospettiva a breve, ma soprattutto a medio e lungo termine, i soltanto nella massima valorizzazione delle capacità professionali e delle potenzialità umane dei lavoratori, all’interno di una strategia che punti alla modifica sistematica e continuativa dell’organizzazione del lavoro.