L’iniziativa sindacale sui temi della salute a Torino e in Piemonte (1961-78)
di Armando Caruso, Pia Lai e Aldo Surdo
Questo saggio si propone di documentare la sostanziale coerenza e continuità delle esperienze sulla salute, anche quando dall’ambito della fabbrica se ne è tentato l’ampliamento a livello territoriale, in un difficile confronto con le istituzioni e i lavoratori delle categorie dei servizi. Questa coerenza che ha dimostrato la resistenza di un’« idea forza », dà ancora oggi il senso di una battaglia politica ancora aperta anche nel movimento sindacale, ma che si misura passo per passo, in rapporto agli obiettivi concreti che si propone e ai livelli di partecipazione di massa che mette in campo. Riteniamo quindi importante mettere in discussione non solo le singole esperienze, ma la linea che complessivamente le ha ispirate, nonché le prospettive — in positivo o in negativo — che si aprono.
La sequenza che vogliamo percorrere individua tre fasi dell’esperienza del movimento: 1) la salute in fabbrica, che definisce un periodo di interesse prevalente e quasi esclusivo sui temi dell’ambiente di lavoro; 2) la fabbrica e il territorio, che caratterizza i primi tentativi di esportazione del modello maturato in fabbrica, mantenendo però una marcata settorializzazione fra i due momenti, e anche internamente a ciascuno di essi, fra diversi aspetti; 3) la fabbrica nel territorio, che vede ancora oggi impegnato il movimento in un processo di saldatura effettiva fra la fabbrica e il territorio, di ricomposizione concreta dei momenti della prevenzione, cura e riabilitazione, di integrazione reale fra i servizi, attraverso una nuova capacità della struttura (Unità locale dei servizi) di pianificare e verificare permanentemente gli interventi, su priorità definite attraverso la partecipazione. In questa sintesi, non si riporteranno diffusamente le singole esperienze né avranno il legittimo rilievo le iniziative di mobilitazione e di lotta che, pure, in questi anni, hanno sorretto in modo decisivo questa linea strategica; bensì si tenderà a coglierne il significato politico e le prospettive che hanno aperto, le difficoltà e i limiti che si sono registrati, soprattutto al fine di generalizzare le esperienze che hanno « pagato » e di non ripetere gli errori commessi.
Riportare gli sviluppi che ha avuto a Torino e in Piemonte l’iniziativa sindacale su questi temi, il cui inizio risale alle esperienze maturate alla Farmitalia nel 1961, richiede di far esclusivamente riferimento — in modo forse eccessivamente schematico — alle fasi prevalenti che l’hanno caratterizzata. Assumendo quindi come punto di partenza il rifiuto a « monetizzare » la salute (che pure ha impegnato e ancor oggi impegna il movimento, nel suo sforzo di ricerca partecipata di soluzioni ai problemi della nocività che rendano credibile la non monetizzazione), si è passati attraverso diverse fasi.
1. La salute in fabbrica
1) Una fase di denuncia delle situazioni produttive particolarmente nocive o disagiate e degli effetti che queste producevano in termini di infortuni e malattie, professionali e non; denuncia che, però, non riuscendo a tradursi in iniziativa di contrattazione, di lotta, finiva poi per delegare ai tecnici l’identificazione e la soluzione dei problemi, nonché gli accertamenti ad essa necessari. Assumere questa posizione di delega ha nei fatti portato il movimento a distinguere i tecnici « buoni » da quelli « cattivi », o perché in qualche forma legati al padrone, o perché comunque non disponibili ad assumersi il ruolo « di parte » che i lavoratori intendevano attribuire loro;
2) una seconda fase, maturata dalla valutazione critica della prima, ha visto il movimento rifiutare in modo sempre più cosciente, di delegare al padrone e ai suoi tecnici il totale arbitrio nelle scelte e nel controllo sull’organizzazione del lavoro e l’ambiente, e ai tecnici, di qualunque tipo e collocazione, il totale arbitrio nelle scelte e nel controllo sullo stato di salute. Questa nuova fase ha visto esperienze come i colloqui con i medici di fabbrica della Fiat e la contrattazione dei carichi di lavoro. Queste esperienze sono state caratterizzate dalla volontà, da parte dei membri di Commissione interna (la fase è prevalentemente anteriore al ’68) di mettere in discussione le scelte determinate da altri, con la coscienza del ruolo che si poteva e si doveva far giocare alla propria esperienza di lavoro e al patrimonio culturale che ne deriva;
3) l’affermazione del gruppo operaio omogeneo, del delegato, offrono spazi molto maggiori a questo modello di intervento, che comincia, in questi anni, a richiedere sistematicità sempre maggiore, anche in rapporto alla estensione delle esperienze. Ed è anche in rapporto a questa esigenza che si sviluppa l’ampio confronto all’interno del sindacato, che confluisce nell’elaborazione della dispensa Flm sull’ambiente di lavoro, che rappresenta ancora oggi il massimo risultato nello sforzo di sancire il modello di intervento generalizzabile a tutte le situazioni, socializzabile a tutti i livelli e in tutte le sedi. L’utilizzazione di questo strumento, nei momenti di formazione sindacale come nelle assemblee in fabbrica, ha consentito di coinvolgere un sempre maggior numero di delegati e lavoratori in iniziative importanti, anche se talvolta isolate e incapaci di mantenersi in modo permanente nel tempo, producendo comunque una crescita dei quadri e del movimento sui temi della salute ambientale.
I delegati e la crescita dei quadri
È certamente un problema politico dare un giusto rilievo alla crescita dei lavoratori e dei quadri dirigenti di fabbrica, avvenuta negli anni a cavallo del 1970. Essa va ricercata soprattutto nei contenuti di una linea rivendicativa basata sulla contestazione dell’organizzazione capitalistica del lavoro, sulla contrattazione dei diversi aspetti (orario, turni, cottimo, organici, pause, ambiente di lavoro, qualifiche) e sulla gestione quotidiana degli accordi conquistati, a livello dei gruppi omogenei, dei delegati e del Consiglio di fabbrica, vedendo nella partecipazione dei lavoratori uno strumento permanente di lotta.
Parecchi accordi del ’69 affidarono per la prima volta la loro gestione ai delegati di gruppo o di linea in rappresentanza dei lavoratori interessati. Nell’esplicare la loro funzione i delegati e i lavoratori dovettero lottare contro la tendenza delle direzioni ad accentrare su di sé le vertenze che sorgevano, portando i problemi fuori del reparto, evitando così il confronto tra lavoratori, delegati e capi interessati al problema. D’altro canto fu necessaria una lotta politica all’interno del movimento perché, mentre da parte di alcuni vi era la tendenza ad accentrare le vertenze su pochi quadri ma « capaci », da parte di altri vi era la tendenza a delegare ad altri (Commissione interna, sindacato) le vertenze di gruppo omogeneo di reparto.
Queste due tendenze apparentemente opposte ma che portavano ambedue al medesimo risultato, cioè alle vertenze di gruppo omogeneo fuori del loro contesto naturale, furono allora battute sulla base di tre elementi fondamentali: a) gli accordi e i loro contenuti, che prevedevano fra l’altro la gestione a livello di gruppo, di reparto; b) l’unità e la combattività dei lavoratori; c) il sindacato, che esplicò in quel momento la funzione di coscienza e memoria delle esperienze passate del movimento operaio, lottando per affermare, tra i lavoratori e i quadri vecchi e nuovi, una linea politica che vedesse partecipi in prima persona i lavoratori e i loro rappresentanti diretti, non solo nelle lotte per conquistare migliori condizioni di vita e di lavoro, ma responsabilmente partecipi nella gestione delle lotte e soprattutto nella gestione degli accordi a livello di reparto e di gruppo omogeneo. Le vertenze del gruppo, del reparto, dovevano trovare la loro soluzione in un confronto diretto con la gerarchia aziendale a livello di gruppo, di reparto. La soluzione di questi problemi
non doveva più essere delegata alla Commissione interna, il gruppo operaio doveva farsene carico e imporre questo metodo all’azienda anche con lotte continue.
Alla Carrozzeria Fiat, con l’accordo del ’69 furono conquistati 56 delegati, eletti su scheda bianca, gruppo per gruppo, che dovevano, come operai « esperti », assistere un « Comitato linee » composto da 8 membri, il quale doveva trattare con la Direzione. Il Comitato linee, accentrando su di sé le vertenze, si sarebbe venuto a trovare nella condizione di non poter controllare né gestire gli accordi, così come era successo per le Commissioni interne nel 1950-51, perché vincolate ad una pratica tutta demandata a livello accentrato. Per questo allora si puntò decisamente sui delegati, affidando al Comitato linee la sola funzione di consulente tecnico e di stimolo politico nei confronti dei delegati stessi, spezzando così il tentativo della Direzione di affidare ad un ristretto gruppo di « specialisti » la contrattazione.
L’elezione dei delegati in Carrozzeria fu « contagiosa » e sia il sindacato che i lavoratori furono concordi nel passare alle elezioni dei delegati in tutto il complesso. Fu così sancito di fatto per oltre centomila lavoratori un accordo limitato prima a circa 15.000 lavoratori. Nella misura in cui gli accordi del ’69 hanno introdotto elementi di contrattazione permanente a livello di gruppo omogeneo ed è aumentata la capacità di responsabilizzazione del delegato e del gruppo nell’assumere in prima persona sia le forme di lotta che la gestione degli accordi, è cresciuta la capacità politico-sindacale dei quadri e dei lavoratori. Esempio tipico, ma tutt’altro che unico, è stata proprio la gestione dell’accordo sulla regolamentazione delle linee a trazione meccanica. L’accordo infatti prevedeva che per ottenere una data quantità di produzione occorreva un determinato numero di operai, una data percentuale di rimpiazzi per necessità fisiche, sia nel caso che si verificassero fermate tecniche della linea, sia che il numero dell’organico fosse al di sotto di quello stabilito: la produzione veniva ridotta proporzionalmente sia all’entità della o delle fermate tecniche che della riduzione dell’organico.
Il problema di fondo di quel momento era di usare la combattività dei lavoratori, che era tanta, su rivendicazioni i cui contenuti dessero la possibilità di riconquistare il potere contrattuale all’interno della fabbrica, reparto per reparto. Questo potere lo poteva dare la regolamentazione delle linee (problema dei recuperi, degli organici, dei sostituti nelle pause, regolamentazione per altre specifiche lavorazioni); il nuovo riconoscimento della professionalità per molti gruppi di lavoratori; la non monetizzazione dei rischi derivanti dall’ambiente di lavoro, ma la loro riduzione, eliminazione e la conseguente istituzione di strumenti effettivi di controllo da parte dei gruppi operai sui dati ambientali e sui dati della salute dei lavoratori nei vari reparti; l’istituzione dei delegati quali rappresentanti unitari a livello di gruppo omogeneo e come unico strumento capace di gestire un’effettiva applicazione degli accordi di regolamentazione. Questa impostazione significava affrontare la soluzione di problemi specifici aziendali che non avrebbero trovato soluzione a livello contrattuale, ma nello stesso tempo per alcuni di questi (vedi la conquista dei 56 delegati) era necessario anticipare soluzioni contrattuali avanzate. Quindi bisognava lottare per obiettivi che non dividessero la categoria e che, all’interno della fabbrica dell’officina e del reparto, tenessero uniti i lavoratori anche dopo l’accordo, per la sua applicazione. Questi accordi che hanno introdotto elementi di contrattazione permanente a livello di gruppo operaio e di delegato, hanno contribuito ad introdurre anche elementi di rigidità nell’uso della forza lavoro (si veda la questione della deroga all’orario di lavoro nel contratto del ’69).
Sull’ambiente di lavoro, ad esempio, in quei gruppi operai omogenei interessati a portare avanti la gestione degli accordi sull’ambiente del ’70-71 (Fiat, Pirelli di Settimo Torinese ecc.) dai questionari di gruppo discussi e compilati dai lavoratori è emersa un’analisi ben precisa che ha dato la possibilità al gruppo operaio, in stretta collaborazione con i tecnici del sindacato, di richiedere rilevazioni dei dati ambientali, visite ed esami medici non generici, ma rilevazioni specifiche, visite ed esami riferiti alle cause di danno alla salute, agli effetti, disturbi e malattie denunciati dal gruppo; in sintesi riferiti ai rischi a cui è sottoposto il gruppo operaio omogeneo in questione. Non solo, dalla discussione e dalle conclusioni del gruppo operaio sono scaturite rivendicazioni di cambiamento dell’ambiente e dell’organizzazione dei lavoro, sostenuti anche da scioperi che miravano a eliminare o ridurre la nocività; sono inoltre maturate prime richieste specifiche agli Enti locali tese ad anticipare aspetti di riforma, realizzando primi contatti tra fabbrica e territorio.
2. La fabbrica e il territorio
Il passo successivo, dunque, prevedeva che l’esperienza sindacale di lotta nocività uscisse dalla fabbrica e dalle sedi sindacali per allargarsi all’ambito sociale più vasto, coinvolgendo gli Enti locali.
Questa esigenza viene ribadita ed assunta in modo definitivo ed unitario nel Convegno della Federazione Cgil-Cisl-Uil su « La tutela della salute nei luoghi di lavoro » nelle cui conclusioni si precisa: l’irreversibilità della non monetizzazione; l’intervento del sindacato sul « dove » insediare nuove attività produttive e sul « come » devono essere progettate le nuove fabbriche; l’utilizzazione critica della legislazione prevenzionistica, nuovi rapporti con la magistratura e utilizzazione critica di tutti gli enti che si occupano di medicina ambientale; i Mac (massima concentrazione accettabile) e gli strumenti di registrazione come mezzo per far acquisire ai gruppi operai una maggiore consapevolezza della propria condizione e stimolarne la partecipazione; la dimensione regionale e scelta degli enti locali come coordinatori che garantiscano l’utilizzazione programmata delle strutture sanitarie esistenti per finalità definite con il sindacato: la costituzione di un centro sindacale di documentazione nazionale; la presenza del patronato nei luoghi di lavoro.
A Rimini si ribadisce inoltre che un rapporto nuovo con i tecnici e con gli enti può instaurarsi a condizione che si arrivi a dei criteri comuni di intervento e alla standardizzazione dei metodi e dei risultati. Proprio per affrontare questo problema in modo organico il sindacato in Piemonte rivendica alla Regione l’istituzione delle Unità di base come primo momento di continuità fra l’iniziativa di fabbrica e il territorio. A questo proposito è da ricordare che al Convegno di Rimini viene proposta una sequenza operativa, in 15 punti, delle attività necessarie per programmare un intervento articolato sulla nocività ambientale. Tale sequenza sarebbe servita di base per lo sviluppo di iniziative che il movimento ha già realizzato o sta realizzando in alcuni Comuni al fine di riuscire a definire, ad esempio, attraverso un elenco delle situazioni produttive, quali ambienti di lavoro esistono nella zona, riuscire a classificarli rispetto alla nocività esistente, ed avere un quadro aggiornato delle strutture sanitarie presenti sul territorio.
L’individuazione degli strumenti istituzionali, tecnici e politici necessari per svolgere le attività elencate nei 15 punti della sequenza operativa, rivaluta il momento di confronto fra le ricerche fatte a livello di gruppo e dal gruppo stesso su un determinato ambiente di lavoro e quelle fatte dai tecnici. L’attenzione volta ad un nuovo ruolo dei tecnici presuppone infatti il riconoscimento di come dal lavoro autonomo e congiunto dei lavoratori e dei tecnici possano scaturire le premesse per la realizzazione di un nuovo modo di considerare la salute e di usare la medicina in senso preventivo. Quando l’inchiesta, con i suoi strumenti, metodi ed esperienze, esce fuori dalla fabbrica, i modelli di intervento diventano sempre più complessi evidenziando da un lato l’esigenza di conoscere per controllare e individuare le soluzioni più adeguate e dall’altro di fornire ai tecnici, che dovranno effettuare le indagini secondo i criteri indicati dai gruppi interessati, una preparazione diversa da quella tradizionale.
Partendo da questa necessità, di dare cioè uno sbocco politico, istituzionale ai problemi che sorgevano dalle iniziative di fabbrica nella gestione dei contratti e degli accordi sull’ambiente di lavoro, le organizzazioni sindacali provinciali di Torino e regionali Cgil, Cisl e Uil, nel settembre del 1971 hanno chiesto ufficialmente alla Regione Piemonte di assumere la responsabilità politica nei confronti dell’applicazione degli accordi Fiat, Pirelli, ecc., in rapporto agli obiettivi e ai criteri con cui la Regione deve realizzare (prefigurandone alcuni momenti) la riforma sanitaria e le Unità sanitarie locali. Solo la presenza all’Assessorato alla sanità di combattive delegazioni di lavoratori della Pirelli, Fiat, Silma e di altre fabbriche interessate convinse la Giunta regionale ad iniziare un confronto con le organizzazioni sindacali. Dopo lunghe trattative (sostenute dalla partecipazione di delegazioni di lavoratori) nel luglio del ’73 la Giunta propose e il Consiglio regionale votò all’unanimità una delibera in cui affermava che: « … l’Amministrazione regionale promuove l’istituzione delle Unità di base, operanti in circoscrizioni comprendenti il territorio di uno o più Comuni su deliberazione dei Comuni interessati, adottata d’intesa con l’Amministrazione regionale »; non sottraendo così, come intendeva fare la Regione, ai Comuni il capitolo della tutela sanitaria nei luoghi di lavoro, ma invece garantendo l’esigenza della costruzione dal basso degli obiettivi di riforma portati avanti dal sindacato nella trattativa.
Le Unità di base sono un servizio delle future Unità locali dei servizi Suoi compiti principali sono: censire le attività produttive, i procedimenti tecnologici, le sostanze usate, ecc.; effettuare direttamente o indirettamente le rilevazioni dei dati ambientali; raccogliere ed elaborare tutti i dati riguardanti la salute dei lavoratori. Questa conquista contribuì a un rilancio delle iniziative di fabbrica sui problemi della salvaguardia della salute nonché ad ampliare confronto tra organizzazioni sindacali e Enti locali sulla costruzione nel territorio di Unità di base per la tutela della salute. All’approvazione della delibera in sede di Consiglio regionale, sono seguiti due anni di logorante confronto con la Giunta, per l’attribuzione di quanto previsto dalla stessa delibera. Questo pesante ritardo era dovuto prevalentemente al dissenso tra l’Assessore di allora e le organizzazioni sindacali sulla diversa interpretazione del ruolo delle autonomie locali, dei Comuni e, in prospettiva, delle Unità locali dei servizi. Infatti il sindacato si opponeva alla tendenza, molto evidente, della Regione ad una centralizzazione dell’intervento, e rivendicava una gestione autonoma da parte dei Comuni, nello stretto rapporto con le forze sociali interessate, al fine di consentire una metodologia incentrata sulla partecipazione dei lavoratori, alla definizione delle priorità e, così vincolate, a momenti di contrattazione per la modifica.
Questo atteggiamento di chiusura della passata giunta si rifletteva sull’impostazione che essa, anche successivamente, tentò di dare all’intero processò di ristrutturazione dei servizi; ma risultò particolarmente esplicito proprio in rapporto alle Unità di base, per diversi motivi: perché erano il primo campo di applicazione specifico su cui misurare la volontà politica di realizzare un reale decentramento; perché rappresentavano un campo di applicazione sul quale maggiori erano le potenzialità di attuare reali momenti di partecipazione e su cui, più che altrove, si poteva misurare lo scontro di interessi con il padronato, rispetto al quale diventava indispensabile, da parte degli Enti locali preposti, assumere una posizione responsabile, nonché farla assumere ai tecnici che svolgevano gli interventi. Questi motivi, oltre a quello di arrogarsi aree di potere che non si intendeva decentrare, hanno prodotto uno scontro, spesso di principio, che non ha portato a sbocchi applicativi della delibera del 19 luglio 1973, per tutto il tempo di permanenza della passata Giunta. Questo scontro trovò una soluzione solo nel momento in cui fu ripreso il confronto con la Giunta nata dalle elezioni del ’75, che, indubbiamente, anche come frutto delle lotte e della crescita quantitativa e qualitativa del movimento, manifestava una sensibilità maggiore alle esigenze dei lavoratori e delle organizzazioni sindacali.
1n questo periodo nasce una esperienza molto importante sull’organizzazione del lavoro, che ha comportato fra l’altro un aumento degli organici: quella fatta da un gruppo di lavoratori con alla testa il suo delegato in una linea di montaggio motori della 124, Sezione meccanica della Fiat Mirafiori. I lavoratori di questa squadra hanno dimostrato come, attraverso una contestazione politico-tecnica dei carichi di lavoro, sia possibile « recuperare la realtà di fabbrica nei suoi aspetti principali (cottimo, qualifiche, ambiente, antinfortunistica) non come ricerca separata dalla realtà di lavoro e dai lavoratori, ma come ricerca continuamente sollecitata, verificata e arricchita dal rapporto con gli operai ». Attraverso esperienze di questo tipo, che hanno come presupposto la capacità dei delegati di riappropriarsi dei modelli utilizzati dagli Uffici tempi e metodi per calcolare l’assegnazione dei tempi, è stato possibile imporre la nozione di tempo massimo quale tempo di saturazione al posto del tempo medio. Facciamo un esempio: per ogni catena di montaggio viene stabilito un tempo medio, costituito, per le varie operazioni, da tempi che sono sempre molto diversi. Se il tempo medio per una catena di montaggio è un minuto, in realtà questo tempo medio comprende operazioni che possono richiedere un tempo di esecuzione di 50 secondi, altre di 55, altre ancora di 65 o addirittura di 70 secondi. Quando questa nozione di tempo medio veniva accettata, si assegnavano ad operai « comprensivi » i posti che richiedevano 50 secondi di lavoro, e ai « rivendicativi » quelli che ne richiedevano 70. Gli operai della Sezione meccanica hanno rimesso in discussione tale criterio, imponendo la nozione di tempo massimo quale tempo di saturazione, vale a dire, secondo l’esempio appena citato, che quale tempo medio venga adottato quello di 70 secondi. Si tratta di un esempio di riappropriazione delle tecniche di organizzazione del lavoro da parte della classe operaia.
Un altro esempio: nel programmare la produzione i tecnici partono dall’ipotesi secondo la quale tutti i prodotti sono perfetti e che il ritmo della catena sarà regolare. Ma ciò non corrisponde alla realtà. Infatti vi sono sempre dei rallentamenti alla catena, o per mancanza di corrente, o imperfezioni sui prodotti o altro. In passato l’operaio doveva accelerare il ritmo per correggere questi difetti. Oggi, invece, sempre sulla base dei criteri di progettazione della catena, si è ottenuto, non soltanto alla Fiat, che il tempo necessario per la correzione di questi difetti sia detratto dal tempo di lavoro.
Avendo già parlato di linguaggio comune vorremmo precisare che esso nasce quando si pone il problema della riappropriazione delle conoscenze tecniche da parte dei lavoratori. A questo punto sono/necessarie due condizioni: da un lato che i lavoratori vogliano riappropriarsi delle conoscenze; dall’altro che tecnici capaci favoriscano questa riappropriazione. I primi tentativi di sistemazione delle esperienze fatte da gruppi di lavoratori per ridurre, eliminare la nocività, per un controllo permanente dei rischi e dei danni da lavoro, sono i prototipi di manuale che tentano di riassumere l’esperienza di alcuni gruppi di lavoratori riferiti a lavorazioni e ad esperienze specifiche di cui si propone la generalizzazione (un circuito di verniciatura, e un reparto resine ciclo presse della Fiat, una centrale elettrica ed un centro meccanografico).
Vorremmo però sottolineare come a questo tentativo di sistematizzazione, di memorizzazione e di socializzazione di alcune esperienze è mancato da parte del sindacato un giudizio aperto, esplicito sia nel merito di ognuno dei manuali che complessivamente, visti come proposta di un modello di conoscenza di controllo per una diversa organizzazione del lavoro capace di salvaguardare la salute dei lavoratori. Inoltre è mancata la scelta da parte delle categorie per la costruzione di una manualistica sui temi dell’ambiente e della organizzazione del lavoro, scelta, per altro abbandonata anche dal Crd (Centro ricerche e documentazione), non sappiamo se per dura necessità o se per scarsa capacità di programmazione. È un discorso da riprendere, anche nell’ambito più generale della formazione sindacale delle « 150 ore » e della gestione dei diritti di informazione e di un corretto rapporto coi tecnici.
Fra le altre iniziative di fabbrica che si sono sviluppate in questi anni, particolarmente significative quelle realizzate alla Silma di Rivoli e alla Pirelli di Settimo, dove l’iniziativa di alcuni delegati del Consiglio di fabbrica e degli operai del reparto Bambury, uno dei più nocivi, ha costretto la Direzione aziendale a intervenire con una serie di modifiche tecniche e di organizzazione del lavoro che hanno migliorato notevolmente la condizione di lavoro. Queste esperienze anch’esse documentate in modo diffuso si proponevano il duplice obiettivo di gestire importanti risultati contrattuali (Registri e Libretti) e, contestualmente, spingere, in termini di movimento, per la soluzione dei problemi istituzionali.
L’estensione del modello di intervento sindacale sui temi dell’ambiente e dell’organizzazione del lavoro, in tutta la regione, dava luogo ad interessanti esperienze di fabbrica e di collegamento col territorio, quali quelle sviluppatesi alla Eternit di Casale Monferrato e in altre fabbriche cementiere; o quella del Centro di medicina preventiva del Comune di Asti, determinatasi intorno alle lotte dei lavoratori della Way-Assauto. Significato particolare assumevano poi le iniziative sviluppatesi nell’alto Novarese (Verbano, Cusio, Ossola) in ordine al rapporto con l’Ispettorato del lavoro di Novara, venutosi a creare per una disponibilità eccezionale degli Ispettorati di quella zona in termini oltremodo coerenti con la strategia sindacale, attraverso il contratto permanente con i Consigli e i lavoratori.
I limiti dell’iniziativa sindacale
A questa fase, estremamente interessante e articolata (basti ricordare ancora l’accordo Fiat del 5-8-1971 sui problemi del controllo dell’ambiente e della salute, la compilazione dei questionari di gruppo nei settori Carrozzeria, Fonderie, Presse e Ferriere), è però seguito un relativo ristagno, i cui motivi vanno probabilmente ricercati, oltreché nell’ormai abituale sporadicità dell’interesse del sindacato, nella situazione di stallo in cui si trova il confronto politico con la Regione, e nello sbilanciamento dell’attività, prevalentemente intorno al confronto istituzionale, lasciando in parte abbandonate a se stesse (e quindi votandole a prematura fine) le iniziative di fabbrica che, pure, avevano rappresentato un elemento nodale, sia per lo sblocco delle posizioni della controparte che per la gestione attiva dei risultati conseguiti a livello territoriale. Vanno però approfondite le caratteristiche di questo « sbilanciamento », proprio al fine di non ripetere errori del passato. Se da un lato la trattativa sul fronte istituzionale assorbiva le energie di chi la conduceva, dall’altro si manifestavano con sempre maggiore evidenza le carenze di impostazione, i limiti di continuità che caratterizzavano l’attività dei sindacati provinciali e dei Consigli, posti di fronte al problema di gestire, con relativa autonomia, l’iniziativa in tutti i suoi sviluppi.
L’iniziativa su altri aspetti dell’organizzazione dei servizi
Bisogna poi aggiungere che nel 1974 il negoziato con le istituzioni comincia ad allargarsi dai temi direttamente connessi alla salute in fabbrica (le Unità di base per la medicina preventiva) a primi scarsi, settoriali aspetti di ristrutturazione del sistema sanitario, che si presentavano ‘come avvio dei processo di riforma, quali, ad esempio, la gestione della legge 386 del 17-8-74. L’approvazione di questa legge ha comportato una dura contrattazione con la Regione, confluita nell’elaborazione di quattro leggi regionali applicative, che prevedevano, nel campo dell’assistenza ospedaliera, primi qualificanti obiettivi di cambiamento (i dipartimenti di emergenza e accettazione, la riqualificazione del personale) e introducevano una pratica di rapporto negoziale fra Regione e sindacato sull’intera materia socio-sanitaria e la ristrutturazione dei sistema vigente.
Infatti, come conseguenza direttamente indotta dall’aver affrontato con quel modello il problema della salute in fabbrica, di aver esteso l’iniziativa, di averne definito i primi sbocchi sul territorio, ne derivava l’esigenza inderogabile di costruire una proposta strategica. che fosse capace, nello stesso tempo, di coglierei diversi momenti di contrattazione, orientandoli correttamente e di unificarli in un insieme integrato o quantomeno integrabile, coerente con gli obiettivi di prevenzione che scaturivano direttamente dalle esperienze di fabbrica. Nacque quindi l’esigenza di definire istituzionalmente i « contenitori » (le zone) all’interno dei quali lavorare per la riqualificazione e la riconversione dei « contenuti » della assistenza sociale e sanitaria. Per portare la Regione a questo passo, vennero definiti da parte del sindacato alcuni criteri pregiudiziali per un corretto processo di articolazione in zone del territorio regionale, rispondenti ad esigenze del movimento più volte espresse.
I criteri, oltre a quelli universalmente riconosciuti, relativamente alle caratteristiche geo-morfologiche, socio-economiche, ecc., sono così sintetizzabili: 1)la definizione dei confini deve essere unica per tutti i servizi, tale da consentire il pur graduale, ma indispensabile processo di unificazione e integrazione, quindi, prima di tutto, prefigurare l’unificazione fra prevenzione, cura e riabilitazione e l’integrazione fra servizi sanitari e socio-assistenziali; 2) i livelli quantitativi di popolazione, nei confini da definirsi, non devono superare un certo limite (50-60.000 persone) onde consentire forme di partecipazione.
Sulla base di questi criteri si avviò il confronto che, dopo un primo negativo approccio con la passata Giunta, portò, poi, nel negoziato con la nuova, alla definizione di 76 zone nella regione Piemonte (legge regionale n. 41 del 1’976). A questa fase ne seguì un’altra, che impegnò il sindacato a discutere con la Giunta sul metodo che questa doveva adottare per definire un piano socio-sanitario, con un’impostazione che recuperasse compiutamente le esperienze di movimento già realizzate, nonché le sedi di partecipazione, anche se ancora settoriali, già avviate. Da questa seconda fase è emersa la legge regionale n. 39 del 1977, relativa alla « riorganizzazione dei servizi sanitari e socio-assistenziali », che, in buona sostanza, istituzionalizza il ruolo dei Comuni. Consorzi, ecc., nonché le funzioni dei Comitati di partecipazione per definire le scelte e i piani delle singole zone.
Nel ’74 iniziò anche la trattativa con il Comune di Torino per l’istituzione di due Unità di base; non si arrivò a una conclusione perché l’Amministrazione comunale intendeva gestire centralmente le Unità e non decentrarle a livello di quartiere; inoltre non intendeva prevedere una programmazione degli interventi, proponendo alle organizzazioni sindacali una cogestione delle Unità di base respinta dal sindacato. Le trattative furono riprese solo nel ’75 con la nuova Amministrazione con la quale fu concordato che la gestione era dell’Ente locale, decentrata a livello di Unità locali dei servizi, con la formazione. Altra esperienza, significativa soprattutto per una corretta impostazione del rapporto coni tecnici, è stata quella sviluppatasi negli anni settanta nell’ambito delle « 150 ore », con seminari monografici in alcune facoltà dell’università di Torino. In un primo seminario a Medicina, sulla base della esperienza concreta dei lavoratori e prendendo in considerazione — attraverso l’analisi del processo produttivo della nocività, delle lotte operaie e della linea sindacale sull’ambiente — un arco di tempo di 5-6 anni, si formarono 4 gruppi di lavoro, composti ciascuno da operai, medici, studenti e docenti, per approfondire le problematiche connesse all’ambiente di fonderia, presse, verniciatura e lastroferratura.
Successivamente l’impostazione del secondo seminario delle 150 ore ha preso in esame l’ambiente di fonderia. Sulla scorta del modello dei 4 gruppi di fattori, partendo dall’esigenza di gestire l’accordo Fiat del 5-8-71, che prevede la possibilità di concordare con le controparti piani specifici di intervento sull’ambiente di lavoro, si è pervenuti a concordare con la Direzione delle fonderie di Mirafiori un programma in questo senso.
Gli sviluppi del rapporto con i tecnici: le 150 ore
Il programma, per l’esigenza di verificare ed imporre il modello d’intervento, e di confrontarlo con la disponibilità dell’azienda, ha un carattere sperimentale e parte non da tutta la fonderia, ma da un solo reparto (le anime). L’accordo prevede che si assumano tutti i dati dei questionari, delle visite di assunzione, delle visite periodiche, delle assenze per malattia e infortunio, delle rilevazioni ambientali. Contemporaneamente sono state tenute riunioni dei delegati del reparto « anime », alle quali hanno partecipato studenti e tecnici, sul modo di compilare il questionario. Intanto, mentre veniva svolto questo lavoro, il medico di fabbrica reperiva i dati. Compilati i 16 questionari di gruppo omogeneo, il lavoro si è svolto a tre livelli: uno all’interno del seminario delle 150 ore, un altro a lato del seminario, con un gruppo più ristretto, mentre ad un terzo livello si è continuato il lavoro all’interno della fabbrica, grazie anche all’elaborazione che veniva portata avanti agli altri due livelli.
In sintesi questa esperienza ha prodotto:
a) dalla compilazione dei questionari sono scaturite richieste di modifica tecnica, che sono state discusse coi lavoratori e quindi inviate all’azienda; b) partendo sempre dai questionari si è posta l’esigenza del ritorno agli operai dei dati delle visite periodiche, e della modifica delle modalità di esecuzione delle stesse. In questo senso si è elaborata una scheda di risposta che ora viene consegnata a tutti in occasione della schermografia; c) l’intervento sull’ambiente ha anche accelerato, attraverso l’esigenza di mutare l’organizzazione del lavoro, un’azione tesa a investire il problema della qualificazione ricercando uno sbocco attraverso la ricomposizione e l’arricchimento delle mansioni.
Questi sono alcuni esempi; ma a rivalutare l’importanza del rapporto tra l’iniziativa teorica del seminario svoltosi con un accordo unitario, e pratica della fabbrica, sta il risultato ottenuto: la verbalizzazione scritta di impegno da parte dell’azienda a concretizzare un intervento sull’ambiente di lavoro. Questo accordo, anche se ancora in una fase sperimentale, sintetizza l’esperienza condotta ed apre la strada per un concreto intervento sulla prevenzione della salute. Infatti esso prevede: un registro dei dati ambientali; un registro dei dati biostatistici (non esistente nell’accordo del 5-8-71); la consegna dei dati riferiti a visite e a esami; i dati riferiti alle assenze per malattia; i dati degli infortuni e della loro dinamica.
Utilizzando le conoscenze dei tecnici e le osservazioni di operai e studenti, si è formulato l’elenco dei possibili rischi e delle visite e degli esami mirati al rischio, oltre la indicazione delle rilevazioni dei dati ambientali. In questo senso i. docenti hanno svolto lezioni tecniche e scientifiche, partendo dai fattori di nocività e dai disturbi lamentati, e denunciati dal questionario, descrivendo i danni a carico dei vari organi del corpo umano, definendo i rischi per la salute, indicando le metodiche di rilevazione dei dati ambientali, descrivendone alcune in dettaglio.
Una parte di lavoro importante è stata svolta dagli studenti. Quelli di Medicina sono riusciti a produrre una dispensa e a discuterla come materia d’esame nei corsi regolari di studio e agli esami, mentre gli studenti di Fisica hanno tenuto lezioni sul rumore, su come si produce e si propaga, sui metodi di rilevazione, sui danni che esso può produrre all’udito e all’organismo del lavoratore, ed hanno prodotto anch’essi una dispensa. A lato del seminario, è stata portata avanti la sistemazione dei dati ricavati dalle cartelle cliniche, e degli altri dati reperiti attraverso il medico di fabbrica. Si è andati anche all’individuazione di visite ed esami di rilevazioni, in modo più specifico di quanto non fosse già stato fatto nel seminario, oltre che all’elaborazione di un modello di Registro dei dati ambientali e biostatistici, nonché di una scheda di analisi degli infortuni. Da questa esperienza ne è scaturito un libro, edito dalla Regione Piemonte, riassume tutta l’esperienza.
3. La fabbrica nel territorio
Nel periodo 1976-77, in continuità con l’iniziativa avviata e a fronte di una situazione legislativa e istituzionale ambigua, emergeva l’esigenza di dare uno sbocco all’esperienza di medicina preventiva nata e consolidatasi attraverso 10 anni di attività e di verifica alla Cassa mutua dell’Azienda elettrica municipale di Torino; uno sbocco che ne trasformasse la collocazione aziendale in territoriale, mantenendone le caratteristiche qualificanti, e traducendole in una sperimentazione di Unità locale dei servizi.
A questo scopo si diede vita ad un progetto, formulato dalla cassa mutua in collaborazione con le organizzazioni sindacali a tutti i livelli (Consigli dei delegati, sindacati provinciali, strutture orizzontali provinciali e regionali) che si proponeva: l’utilizzo della struttura e, soprattutto, del modello elaborato dal Centro di medicina preventiva della cassa mutua Aem nella zona n. 6, S. Donato-Campidoglio, nel comune di Torino; l’estensione, anche al di fuori della fabbrica, del modello di intervento sindacale sulla salute per costruire un « piano partecipato per l’Unità sanitaria locale », all’interno del quale collocare l’utilizzo del Centro di medicina preventiva, integrandolo gradualmente con gli altri servizi esistenti, preposti prevalentemente alla cura; manifestare ampia disponibilità politica a muoversi in direzione della riforma, avviando il trasferimento del personale dagli enti mutualistici alle costruendo Unità sanitarie locali.
Si metteva così in moto un meccanismo che coinvolgeva prima di tutto il Comune di Torino, dando luogo al complesso lavoro di un gruppo che, nel tentare di trasferire il modello dalla fabbrica al territorio, ne verificava i punti fermi, ne modificava le inadeguatezze derivanti prevalentemente dalla esistenza, in esso, di più forze sociali, organizzate e non, e comunque in modo non unitario ed omogeneo, elaborava i pezzi mancanti, facendo poi confluire il tutto nel « progetto S. Donato » per la sperimentazione di un modello partecipato di Unità locale dei servizi.
Caratteristiche più significative del progetto e del lavoro che l’ha preceduto sono: 1) lavorare all’obiettivo di definire una mappa dei rischi della zona sulla base del recupero dell’esperienza degli « esperti grezzi », cioè di quanti hanno una conoscenza del territorio, seppure con modi di vedere diversi, e utilizzando, come strumento di lavoro, una griglia di rischi, che li analizzi distinguendoli in fasce di età; 2) individuare priorità di intervento sui rischi sulla base di tre parametri: gravi, diffusi, prevenibili; 3) lavorare alla costruzione di momenti di partecipazione capaci di verificare la mappa e le priorità individuate, e successivamente, di verificare l’attuazione degli interventi e la loro efficacia attraverso un sistema informativo chiaro e trasmissibile, da mettere a confronto con un altrettanto trasparente bilancio, che evidenzi le risorse utilizzate, consentendo a chiunque di fare il parallelo costi/ risultati, e di dare quindi un giudizio argomentato; 4) procedere quindi alla formulazione di piani di intervento relativamente alle priorità individuate, programmando verifiche periodiche; 5) proporsi un piano di formazione permanente degli operatori, per metterli in grado di recepire un modello di intervento e quindi di lavorare per piani, e operare in modo corretto e qualificato all’interno dei singoli piani.
Questo progetto, in pratica, si propone di sperimentare un procedimento per la ristrutturazione dei servizi, che ne attui non solo la « territorializzazione » (la nuova localizzazione, cioè, nelle zone) contestualmente ad una pur indispensabile razionalizzazione, a partire dal modo in cui vengono operate le scelte e impiegate le risorse. Questo procedimento pone come elemento pregiudiziale l’intervento sulla domanda, non in modo repressivo (vedi ticket), ma di modificare, alla base, il modo di vedere i problemi della salute da parte degli utenti, con un approccio tanto più complesso e controverso quanto più è consolidato nella mentalità di tutti il vecchio tipo di intervento (prevalentemente riparatorio e/o di tamponamento). Su questo progetto, e su tutte le difficoltà di ordine istituzionale, o di rapporti interni al sindacato, vi è l’impegno delle organizzazioni sindacali a mantenere un ruolo trainante (che non può essere però esclusivo, se si vogliono coinvolgere le diverse forze sociali operanti nelle zone); anche e soprattutto a partire dalle significative realtà aziendali presenti (Teksid, Michelin, Aem, Maglificio ex alpino, ecc.) con la loro contrattazione sull’ambiente di lavoro e sullo stato di salute; nonché attraverso il coinvolgimento delle strutture sindacali degli enti operanti nel territorio «ospedali, ambulatori Inam, ecc.).
La vertenza Fiat del 1977
Nel periodo tra la fine del ’76 e primi mesi del ’77 si è venuta definendo la piattaforma dell’ultima vertenza Fiat che ha avuto come premesse, rispetto .ai problemi della salute dei lavoratori e all’ambiente di lavoro, in modo specifico, ma anche rispetto alla organizzazione del lavoro più in generale, dei lunghi momenti di preparazione a livello di diverse Leghe Flm di Torino. Alla V Lega, in particolare, il problema è stato affrontato da un collettivo di delegati molto numeroso, una parte dei quali con compiti specifici sia all’interno della fabbrica che del territorio. Erano presenti membri del Comitato ambiente, dei Comitati di cottimo, del patronato, membri del Comitato di partecipazione dell’Unità di base di Mirafiori Sud e operatori della Lega, della zona e di strutture orizzontali.
Questo collettivo ha riconosciuto l’importanza di definire scelte prioritarie rispetto alle richieste di intervento per ridurre-eliminare la nocività. Sulla base delle informazioni in possesso dei delegati è stato possibile costruire mappe grezze dei rischia livello di grandi comparti di lavorazione. All’interno di queste, sono state evidenziate le aree prioritarie di intervento sulla base della valutazione dei rischi più gravi, più diffusi e prevenibili. Altri problemi dibattuti sono stati la necessità di coordinare l’iniziativa sindacale a livello di stabilimento e di Lega e aprire uno spazio nella vertenza ad un intervento sui problemi della salute dei lavoratori da parte dell’Ente locale e della Regione. Dalle conclusioni del collettivo è sorta la necessità di un confronto più largo e approfondito, durato nel tempo (sono nati così i due seminari tenutisi a S. Pierre), che ha visto partecipi oltre e delegati delle altre sezioni Fiat e operatori di altre Leghe Flm (compresi delegati Fiat di altre città) anche operatori dell’Unità di base Mirafiori Sud e tecnici.
Gli obiettivi concretizzati nel primo di questi seminari possono essere così sintetizzati: — dallo stato di salute, alla vertenza Fiat; — dallo stato di salute, alla costruzione dell’Unità di base.
La trattativa ha visto la resistenza padronale irrigidirsi in modo particolare sull’intervento dell’Ente locale e della Regione, relativamente ai controlli della salute dei lavoratori e sulle indagini ambientali, dimostrando di non aver intenzione di cedere all’Ente locale i suoi interventi. Le conquiste più significative dell’accordo raggiunto il 7 luglio 1977 sono:
– il rilancio del confronto e della contrattazione aziendale tra il Consiglio di fabbrica e le Direzioni aziendali attraverso l’individuazione delle aree di maggior rischio, i tipi di intervento, la loro fattibilità, i tempie gli oneri di spesa;
– la possibilità di utilizzo dell’Ente pubblico anche se con certe limitazioni, dove l’intervento si concorda (l’onere è a carico dell’azienda);
– il fatto che le visite mediche nell’ambito delle aree prestabilite vengono fatte durante l’orario di lavoro e per quelle esterne mediante permessi retribuiti;
– la consegna da parte della Sala medica Fiat della diagnosi ad ogni lavoratore, sia per le visite fatte nelle aree individuate, sia per le visite periodiche di legge, che peraltro l’azienda continua a fare;
– l’istituzione del Libretto sanitario di rischio e del Registro dei dati biostatistici, previa verifica con le organizzazioni sindacali a livello centrale del gruppo Fiat;
– la disponibilità (per la prima volta) a discutere i criteri di funzionamento della Sala medica e del Centro ricerche ambientali e dei Servizi ecologici per l’intervento di questi enti nelle aree concordate;
– la disponibilità ad esaminare in tempi certi ipotesi di soluzione per i non idonei con l’obiettivo di un loro reinserimento in normali attività lavorative, anche utilizzando corsi professionali specifici.
Il secondo seminario (1978) è stato finalizzato all’omogeneizzazione dei criteri e delle iniziative di gestione (4 gruppi di fattori, mappe dei rischi, griglia delle priorità). La gestione dell’accordo si è mossa via via, pur con difficoltà e ritardi in tutte le sezioni e i settori della Fiat (64 aree e 13.000 lavoratori interessati), recuperando e scoprendo una volontà dei Consigli di fabbrica e dei lavoratori di misurarsi su questo problema, a volte superiore alla stessa volontà e capacità espressa dal sindacato. La gestione dell’accordo Fiat si è sviluppata su tre fronti distinti, ma legati loro come unica possibilità di vincere una partita grossa come quella messa in piedi dall’accordo stesso.
1) Vi sono state iniziative, in fabbrica nel rapporto coi lavoratori (costruzione delle mappe, delle priorità, delle richieste) e nei confronti della Direzione (contrattazione delle aree prioritarie e, in alcune situazioni, bonifica). Sempre con la Direzione, si è avviata una verifica dei criteri; e in rapporto al riconoscimento dell’Ente locale come di chi, attraverso l’Unità di base, è preposto alla sistemazione dei dati nonché sugli strumenti per il ritorno, delle informazioni (registri e libretti) ai lavoratori interessati.
2) Su un altro fronte si è avviato il confronto con le segreterie regionali e provinciali Cgil-Cisl-Uil, la Flm, le categorie del pubblico impiego, gli ospedalieri, i parastatali, gli Enti locali, che, a partire dalla domanda di servizi emergenti dalla gestione dell’accordo, devono costruire una risposta in termini non esclusivamente solidaristici. Si tratta di definire una proposta che in rapporto all’esigenza espressa dai metalmeccanici (nuova organizzazione del lavoro, salute, professionalità), metta assieme un reale momento di intercategorialità capace di far scaturire, con la partecipazione di massa, un’ipotesi volta al cambiamento e alla riforma dell’esistente (priorità, utilizzo delle risorse e del personale esistente).
3) Contestualmente è continuata la contrattazione con la Regione Piemonte e il Comune di Torino per la definizione del sistema informativo, dei registri e libretti, per le convenzioni con gli enti di ricerca, per l’attuazione dell’accordo stipulato il 10-3-77 in relazione alla vertenza Fiat; nonché sul problema del trasferimento di personale alle Unità di base e alle attrezzature ad esse necessarie per poter effettuare interventi finalizzati ai luoghi di lavoro.
In sintesi si può dire che il superamento, maturato a partire dai seminari di S. Pierre, ancora parziale, della settorialità dell’intervento sull’ambiente di lavoro, la individuazione del legame di questo con l’organizzazione del lavoro, salute, il fuori fabbrica, il territorio, le altre categorie e le istituzioni, costituiscono apertamente, seppure con limiti, la fase più avanzata di gestione dello scontro per il cambiamento, non solo con il padrone ma anche per far diventare l’organizzazione del lavoro, la centralità della fabbrica, non più problemi astratti e filosofici o iniziative che di volta in volta vengano affrontate categoria per categoria, bensì il presupposto comune perché il nuovo modo di lavorare caratterizzi realmente una fase di trasformazione.
I seminari intercategoriali per la ristrutturazione dei servizi
In stretta relazione con. le iniziative di questo più recente periodo prima riferite, hanno assunto significato determinante due seminari di zona (Mirafiori e Barriera di Milano) sia per i contenuti metodologici che per i livelli di partecipazione. La lunga fase di preparazione, caratterizzata da intense attività sia di elaborazione collettiva che di rapporto coni delegati di cui era prevista la partecipazione, hanno consentito di dare a questi momenti formativi un carattere particolare, tutto teso all’acquisizione della capacità di lavorare per piani che si costruiscano sulla base della conoscenza della realtà esistente, sulla definizione di obiettivi, di modi e tempi per il loro conseguimento.
In pratica, in questi seminari, esperita una prima fase di socializzazione di informazioni sulla situazione legislativa, su quella strutturale delle zone e sul modello di intervento proposto, si è avviato un lavoro — che ha poi trovato e deve trovare continuità nell’apposita commissione di zona — atto a definire obiettivi prioritari credibili e iniziative sindacali adeguate, per costruire una « piattaforma di zona » che orienti, in modo coordinato, l’azione rivendicativa delle diverse categorie in direzione di finalità comuni.
Queste esperienze, che hanno dato risultati estremamente positivi, rappresentano un punto di riferimento sia per offrire alle zone il modello operativo su cui incentrare l’attuale fase di potenziamento politico e strutturale, sia per dare un’interpretazione del ruolo della formazione sindacale ben più ricco che in passato, e, soprattutto, molto più legato alla realtà di iniziativa del sindacato.
Valutazioni sull’esperienza: i limiti manifestati
Fatta questa ricognizione politica e non solo cronologica, delle linee e delle iniziative più significative portate avanti in questi anni, è utile tentare un’analisi sommaria dei limiti e delle contraddizioni emerse, che non hanno consentito a questa parte — importante — della strategia di decollare definitivamente, e di affermarsi compiutamente nel movimento, assumendo il peso politico che dovrebbe avere, data la ricchezza dell’elaborazione e dell’esperienza.
Una riflessione attenta, volta ad individuare queste contraddizioni non può non partire dall’analisi sulle caratteristiche della strategia sindacale, almeno dal ’68 in poi. In quegli anni, infatti, l’iniziativa del sindacato ponendosi l’obiettivo di introdurre elementi di controllo nel processo produttivo, rigidamente determinato dall’organizzazione del lavoro padronale, prendeva a riferimento il gruppo operaio omogeneo e costruiva una strategia fondata sul ruolo fondamentale del delegato nel rapporto con il gruppo omogeneo, non come « registratore » delle opinioni dei lavoratori del gruppo stesso, o come semplice trasmettitore delle posizioni del sindacato all’interno della fabbrica, bensì come elemento di sintesi della partecipazione da portare al confronto all’interno del movimento e del sindacato; quindi, si tentava da un lato di costruire una struttura capace di esercitare il controllo sull’organizzazione del lavoro, dall’altro di definire una politica rivendicativa, adeguata ai problemi posti dalla condizione operaia.
In questa stessa fase, l’iniziativa si avviava complessivamente sui diversi aspetti interni all’organizzazione del lavoro nel tentativo di applicare un modello di intervento, che sostanzialmente significava: privilegiare la partecipazione del gruppo operaio omogeneo e del suo delegato alla definizione delle scelte rivendicative in ordine all’organizzazione del lavoro, basata sull’analisi del processo produttivo; alla ricerca dei rapporti causa-effetto fra questo e la salute psico-fisica dei lavoratori; sull’adozione di strumenti di lavoro adeguati e omogenei fra i diversi gruppi (questionario di gruppo o altro); sulla capacità di garantire permanentemente un controllo da parte del gruppo sulle modifiche intervenute e sulla loro efficacia in rapporto al miglioramento della condizione di lavoro; sull’esigenza di costruire una « memoria » del gruppo che, pur in
Presenza di una sua disgregazione (o per mobilità o per altri motivi, dipendenti, dai processi di ristrutturazione oggi largamente in atto) consenta di seguire, nel tempo, le modificazioni strutturali intervenute e di « storicizzare » lo stato dell’iniziativa sindacale. Solo successivamente questo modello proposto e adottato inizialmente in termini complessivi, è stato interpretato e applicato riduttivamente ai temi tradizionalmente inseriti sotto il titolo ambiente di lavoro.
Da questa interpretazione divaricante, prodottasi sia nell’analisi che nell’iniziativa ad essa conseguente, è scaturita e si è col tempo consolidata una vera e propria scissione nel modo di impostare la politica rivendicativa, che si è riflessa anche sull’impostazione data alla struttura organizzativa del sindacato, dai Consigli di fabbrica (comitati ambiente) alle strutture a tempo pieno. Pur dando una valutazione negativa di questa scissione e soprattutto degli effetti che ha prodotto e che ancora oggi si verificano, va però valutato attentamente il fatto che comunque l’iniziativa più specifica sull’ambiente — inteso in senso stretto — ha avuto uno sviluppo, anche se contraddittorio e discontinuo, nella misura in cui ha individuato uno sbocco nel territorio.
L’iniziativa in direzione dell’Unità di base, pur avendo dato luogo ad una tendenza « istituzionalizzante », ha però costituito un’importante scelta in direzione della saldatura tra la fabbrica e il restante territorio e della costruzione reale del rapporto fra prevenzione in fabbrica e tutela della salute nei servizi, muovendosi cosi coerentemente per dare corpo allo slogan « unificazione di prevenzione, cura e riabilitazione ». Legato a queste considerazioni va aggiunto anche un altro elemento: essendo presupposti fondamentali di questo modello di intervento sull’organizzazione del lavoro, la partecipazione e il suo mante-Omento in termini di continuità e quindi lo sviluppo del ruolo dei delegati e dei gruppi operai omogenei, occorre affrontare in modo approfondito la cosiddetta « crisi del delegato », non limitandosi a liquidare o, peggio, a ritenere di esorcizzare il problema esclusivamente ammettendone l’esistenza. Una prima valutazione deve portarci a rispondere, per esempio, a due interrogativi: quali strumenti ha dato il sindacato ai delegati, in termini di formazione, informazione, strumenti di lavoro per stimolare, dare carattere permanente al suo rapporto con il gruppo operaio omogeneo e quale spazio politico ha dato il sindacato, nella suo politica complessiva, alle scelte maturate nell’ambito dei Consigli di fabbrica nel reale rapporto coni gruppi operai omogenei?
Se da un lato la risposta a questi interrogativi non può essere completamente negativa, non si può onestamente dire che sia compiutamente positiva, e questo può aver contribuito e creare una scissione fra prassi politica dei delegati all’interno della fabbrica e sindacato all’esterno, scissione che si è crisi del delegato stesso, che non si trova più in modo omogeneo nelle diverse sedi in cui esplica il suo ruolo. A dimostrazione di ciò, si possono portare le esperienze sugli ambienti di lavoro che, pur soffrendo dei limiti suddetti, nella misura in cui hanno tentato di dare risposte positive quanto meno alla prima parte dell’interrogativo, che ci siamo posti, hanno consentito ai delegati che se ne sono occupati di dare un senso compiuto alla propria funzione e al proprio rapporto coni lavoratori (semmai per questi la « crisi » si è aperta nel momento in cui sono stati indicati come « specialisti » del problema ed emarginati dal resto della politica rivendicativa).
A tutto ciò si deve aggiungere il fatto che il sorgere e l’acuirsi della crisi economica ha reso sempre più rilevanti i problemi di compatibilità della logica dell’impresa, anche in relazione al fatto che si sono ridotti sempre più, fino ad esaurirsi in alcuni casi, i margini di recupero da parte del padronato. Il livello dello scontro politico in atto, in rapporto ai problemi di politica economica e al confronto con le controparti confindustriali e governative, soprattutto sui piani di settore, ha accentuato la tendenza alla scissione tra le politiche e i protagonisti; ha cioè fatto prevalere l’orientamento teso a costruire politiche di settore in rapporto alla politica industriale ed economica, marginalizzando il ruolo della contestazione, del controllo e della contrattazione dell’organizzazione del lavoro da parte dei delegati e dei gruppi operai omogenei.
Da queste considerazioni emerge la valutazione di un riflusso, magari non complessivo e omogeneo, dal ’69 ad oggi, nella pratica della partecipazione, benché mantenuta rigorosamente come scelta strategica, troppo spesso solo teorica, tale da non consentire lo sviluppo dell’elaborazione e la generalizzazione delle esperienze concrete di contestazione, controllo e contrattazione dell’organizzazione del lavoro.
Conclusioni
Questa sommaria valutazione delle contraddizioni ancora presenti nell’iniziativa piemontese sui temi della salute ambientale e dell’organizzazione del lavoro impone di individuare modi, tempie situazioni che ci consentano di superarli, pur con la necessaria gradualità. Gli spazi di iniziativa all’interno e all’esterno del sindacato aperti concretamente nella realtà piemontese che caratterizza la fase attuale sono rappresentati dalla possibilità di superare la scissione tra organizzazione del lavoro e ambiente, anche attraverso l’elaborazione di un « modello unico », o, per meglio dire, la verifica e l’adeguamento del modello sindacale di intervento sull’organizzazione del lavoro alla nuova situazione determinatasi nella fabbrica soprattutto in conseguenza dei processi di ristrutturazione. Questo può avvenire non solo sulla base del confronto nella struttura del sindacato; ma anche e soprattutto in base all’individuazione di punti di attacco definiti, magari operando una selezione che consenta di produrre un « a fondo », coinvolgendo tutti i livelli del sindacato interessati, dal gruppo operaio omogeneo al delegato, al Consiglio di fabbrica, alla categoria, alla zona fino al livello regionale.
A fianco di questo è avviata — ma richiede ancora un avallo cosciente da parte del sindacato — un’iniziativa più diretta sul versante « salute-fabbrica territorio », consistente nella sperimentazione di massa, in due zone pilota di Torino, di un’Unità locale dei servizi, concretamente finalizzata e dimensionata al concetto di prevenzione, maturato in questi anni nelle esperienze di fabbrica. Iniziativa che si sviluppa in stretta connessione con quanto sta venendo avanti, in termini di gestione dell’accordo del 7 luglio ’77 alla Fiat, e che sta prefigurando, in modo più credibile che nel passato, sedi di rapporto intercategoriale fra industria e pubblico impiego, definendo ruoli e ipotesi di lavoro che, pur salvaguardando il concetto della centralità della fabbrica, non relega nessuno in ruoli subordinati.
Queste proposte, probabilmente insufficienti, sono le uniche che, a tutt’oggi sembrano credibili, realizzabili e capaci di avviarsi su di un terreno che, non in termini di « rilancio », pare prefigurare un parziale recupero di una situazione di ristagno, difficilmente sostenibile più a lungo. Contestualmente, sul piano del confronto istituzionale, si sviluppa il negoziato con la Regione e gli altri Enti locali sugli aspetti ritenuti prioritari, al fine di conseguire gli obiettivi propostici.
1) Il Piano socio-sanitario della Regione Piemonte su mi va espresso, oltreché un giudizio complessivo argomentato, una capacità di coinvolgimento delle categorie e delle zone interessate, per far loro assumere il ruolo di protagoniste della formulazione di piattaforme, rapportate alle reali priorità di categoria e/o di territorio, e nella costruzione di iniziative di movimento conseguenti.
2) Gli aspetti attuativi delle Unità di base (estendibili in prospettiva elle Unità locali dei servizi) vedono il sindacato impegnato in un confronto serrato su: finanziamenti e fornitura di attrezzature mirati, in relazione a programmi di intervento, derivanti dalle priorità definite dalle organizzazioni sindacali (mappe dei rischi da lavoro nella zona); convenzioni con Istituti qualificati (ad esempio, Università) per la definizione omogenea di procedure per l’eliminazione dei rischi e per la verifica dei risultati; il sistema informativo visto e da prevedersi (in connessione con quello della Unità locale dei servizi) e il ritorno delle informazioni a livello di gruppo e individuale (Registri e Libretti); la formazione e riqualificazione dei tecnici.
3) I primi momenti di mobilità del personale delle mutue e degli Enti soppressi, in direzione della costituzione delle Uls e dei servizi innovativi che ne caratterizzano la tendenza alla trasformazione (Saub, Unità di base, servizi psichiatrici territoriali, ecc.), affrontando tutti i problemi di riqualificazione e ricollocazione conseguenti.
4) Certificazione medica sulla quale, a partire dall’ambiguità della convenzione unica per l’assistenza generica (in particolare gli artt. 28 e 31 della legge 833) è aperto il confronto con la categoria dei medici, anche per superare i ritardi già presenti, a livello nazionale, nella attuazione della stessa, soprattutto per quanto riguarda la modulistica.
A livello decentrato (Comuni, Consorzio di Comuni, ecc.) si sta lavorando per portare avanti, in fabbrica e nel territorio, la definizione delle priorità e per proporle, con la mobilitazione, alle Amministrazioni locali, perché le assumano nei relativi piani di intervento delle Unità locali dei servizi.
Attraverso l’iniziativa sindacale per la costruzione partecipata della salute, di cui in Piemonte esistono le premesse e alcune delle condizioni tecnico-politiche fondamentali, è possibile poter dare un contributo alla sperimentazione delle modalità attraverso le quali sarà possibile informare il processo di utilizzazione e di cambiamento del vecchio sistema sanitario, non ignorando che anche nell’ipotesi di riuscire a costruire un sistema partecipato, anzi, proprio in questa ipotesi, i compiti del sindacato a livello regionale e centrale diverranno più impegnativi, soprattutto in ordine alla capacità di lavoro per piani, dando uno spazio crescente alle attività di elaborazione, di formazione permanente e di bilanci di verifica.