Intervento di Maurizio Magnabosco

Il tema del convegno sollecita stimolanti riflessioni sullo stato e la prevedibile evoluzione dei rapporti che intercorrono, sul piano collettivo, fra i soggetti che operano all’interno dell’impresa.

Tali riflessioni, focalizzate sulla realtà Fiat, non possono peraltro prescindere da un’analisi, seppur sommaria, dei connotati che caratterizzano oggi tali soggetti: i lavoratori, il sindacato, l’azienda.

I lavoratori

Gli anni della ristrutturazione hanno determinato, attraverso la mobilità territoriale e professionale, un vasto rimescolamento di persone nelle unità produttive del gruppo, con sensibili trasformazioni anche sul piano culturale. In generale, chi è rimasto in fabbrica dopo la crisi si aspetta che l’azienda interpreti in modo corretto il proprio ruolo all’interno del sistema economico, con particolare riferimento alla garanzia dell’occupazione. Si è delineata una nuova scala di valori collegati al lavoro: dal garantismo ad ogni costo al pragmatismo e alla professionalità: ed è indubbio che da questo diverso modo di pensare la struttura aziendale riceve maggiore legittimazione.

Si tende a rifiutare una strategia sindacale ideologica e massimalista e, senza rifugiarsi necessariamente nel “privato”, si perseguono obiettivi più razionali e concreti. In buona sostanza i lavoratori dell’industria e della Fiat rappresentano oggi uria realtà articolata e dinamica di cui non è più possibile dare uria lettura per stereotipi.

Le nuove massicce assunzioni effettuate in questi anni hanno inoltre portato in fabbrica esigenze, aspettative e valori in buona parte diversi rispetto a quelli tradizionalmente propri del mondo operaio. L’atteggiamento dei giovani (razionale e pragmatico) si è parzialmente spogliato delle forti connotazioni ideologiche che nel passato venivano attribuite alla condizione di lavoro. A me pare che lo stato di lavoratore metalmeccanico non venga percepito da questi nuovi soggetti come un fattore di aggregazione sufficiente a interiorizzare i valori di appartenenza ad una medesima «classe».

Affiorano insomma atteggiamenti e comportamenti nuovi e soprattutto riemergono convinzioni, mai venute meno, ma che in passato avevano scarso diritto di espressione quale, ad esempio, il fatto che la vita di lavoro nell’impresa non può essere solo estraneità e conflitto.

Tutto ciò sta operando un progressivo dissolvimento dell’omogeneità di cultura e di comportamenti tipica degli anni sessanta e settanta. Ciò, a mio parere, costringerà, anzi costringe già fin d’ora, azienda e sindacato a ridefinire e articolare profondamente le proprie politiche.

Il sindacato

Peraltro i segni di cambiamento cui ho fatto cenno prima si manifestano in una realtà nella quale i valori espressi dal movimento sindacale negli anni settanta hanno, si, perso tensione, ma non sono scomparsi. E ciò vale, in particolare, per il senso di solidarietà che rimane alto tra persone che, pur differenziandosi più che in passato, esprimono ancora forti interessi comuni.

L’organizzazione sindacale, anche se in crisi, rimane pertanto un’istituzione forte, che continua a offrire al lavoratore una prospettiva di tutela diversa da quella individuale. Pur tuttavia è netto, da parte dei lavoratori stessi, il rifiuto di adesione a strategie globalizzanti di tipo politico, mentre si chiede un ritorno del sindacato a linee rivendicative «classiche», incentrate sul rapporto tra lavoratore e azienda: salario, sicurezza del posto, qualità dell’ambiente di lavoro.

Del resto, nel contesto sociale aziendale che ho per sommi capi tentato di delineare, le organizzazioni sindacali si muovono da qualche tempo in direzioni diverse se non addirittura divergenti. Schematizzando:

  1. su un fronte ci sono i sostenitori, più o meno convinti, di una linea sindacale che vede nel sistema delle compatibilità un vincolo dal quale non è possibile prescindere se non si vuole deteriorare il già precario livello di competitività del nostro sistema economico sui mercati internazionali;
  2. sull’altro c’è chi si rifiuta di collocare la negoziazione sindacale sul terreno dello scambio, nel duplice tentativo di recuperare lo spazio perduto nel periodo della ristrutturazione dell’apparato industriale e di non perdere di vista le frange più oltranziste (Dp, Cobas ecc.). Si tratta di una politica che, tutto sommato, rimane ancorata a schemi ideologici che trovano, a mio parere, un consenso sempre più limitato, e a contrapposizioni frontali per le quali il padrone rimane il nemico da abbattere. E insomma un’interpretazione un po’ romantica, se non forse talvolta tragica, delle relazioni industriali, che vede nel sindacalismo conflittuale l’unico mezzo per riacquisire consenso dalla base. Così stando le cose è facile concludere che le difficoltà a raggiungere intese di tipo unitario saranno via via crescenti, se non saremo in grado (azienda e sindacati) di contemperare gli obiettivi di politica sindacale e le esigenze delle imprese.

L’azienda

È ormai noto che il problema dal quale nessuno può pensare di prescindere è quello della sua forza competitiva. Ogni tentativo di rimozione di tale vincolo è velleitario e destinato a produrre false illusioni circa la reale capacità del sistema produttivo di mantenersi in vita. In un passato non troppo lontano, qualcuno confondeva la ricchezza prodotta dal sistema industriale con le questioni legate alla sua redistribuzione; in altre parole: siccome non si era d’accordo sulla destinazione del profitto si faceva la guerra al profitto.

Oggi nessuno sottovaluta più le regole e i vincoli posti dalla concorrenza internazionale, tradizionale o emergente, alla nostra azienda. La ripresa del processo di accumulazione ha rappresentato il presupposto obbligato e fondamentale dell’imponente piano di razionalizzazione dell’apparato produttivo che, sostenuto da una forte accelerazione dell’innovazione tecnologica e dalle profonde trasformazioni ad essa collegate sul piano gestionale e organizzativo, ha dato vita alla così detta fabbrica ad alta automazione.

È all’interno di questo scenario tecnico, economico e sociale che gli attori delle relazioni sindacali si confronteranno negli anni novanta. Quali sono allora le prospettive dei rapporti sindacali in Fiat nei prossimi anni?

Premesso che, a mio parere, sia l’azienda sia il sindacato mantengono sufficiente capacità di governo da un lato e di rappresentatività dall’altro per affrontare eventuali spinte rivendicative autonome, il contesto nel quale agiranno le parti sociali sarà caratterizzato da due fenomeni:

  1. l’ulteriore influsso che lo sviluppo dell’automazione nei processi produttivi avrà sull’organizzazione del lavoro;
  2. le modalità di inserimento/adattamento delle nuove generazioni nella realtà di fabbrica.

Da parte nostra siamo convinti che:

  1. la capacità competitiva di un’impresa si basa anche sull’apporto dei singoli lavoratori e quindi buona parte del successo deriva dalle loro motivazioni e dal loro coinvolgimento;
  2. il consenso (cioè la disponibilità ad accettare un ordine) è maggiore quanto più si riconosce il diritto a dare ordini (legittimazione) e la situazione attuale è di passaggio da una fase di mancanza di legittimazione ad una di legittimazione fondata più sulla crisi-paura che sull’adesione spontanea;
  3. è pur vero che storicamente in Italia (a differenza di altri paesi) è stato impossibile coinvolgere i lavoratori e le loro rappresentanze nell’opera di risanamento e sviluppo del sistema industria le, ma è altrettanto vero che questo è il momento in cui si può chiedere e ottenere un impegno in tale direzione, a patto che gli obiettivi risultino chiari e condivisi.

In questa prospettiva la ripresa di efficienza, dinamismo e competitività diviene un obiettivo vero, non retorico, su cui si possono mobilitare non solo manager e quadri, ma tutti i lavoratori.

Per parte sua il sindacato dovrà affrontare non solo le questioni legate ai nuovi orientamenti espressi dai lavoratori e di cui abbiamo parlato in precedenza, ma anche nuovi problemi di rapporto con chi opera in una fabbrica in rapida e costante evoluzione sul piano tecnologico e in lenta ma profonda trasformazione nel modo di lavorare. Un esempio emblematico: se nella linea di montaggio tradizionale è forte, pressoché indissolubile, il legame tra addetto e posto di lavoro, fra le professionalità qualitativamente emergenti (conduttori) della fabbrica ad alta automazione si afferma un principio che, sconvolgendo i canoni classici dell’organizzazione del lavoro, configura un nuovo rapporto tra addetto e mansione.

Insomma, la relazione con la propria attività lavorativa tenderà in prospettiva ad assumere le stesse caratteristiche che oggi contraddistinguono la manutenzione, tradizionalmente mobile, fisicamente e professionalmente, all’interno dei reparti. Tutto ciò richiederà un difficile ma indispensabile sforzo di adeguamento dell’azienda ma anche del sindacato, che dovrà fra l’altro articolare in modo differenziato le politiche rivendicative e le forme della rappresentanza, per coniugare la valorizzazione delle professionalità emergenti con la tutela dei lavoratori più anziani a più scarso contenuto professionale.

Quali sono allora le prospettive della negoziazione in Fiat? A livello generale sarebbe auspicabile uscire una volta per tutte,dalla logica dei rapporti di forza, logica che trova la sua unità di misura negli esiti alterni della contrattazione, con conseguente instabilità delle relazioni. Penso però che lo stato attuale dei rapporti e l’incapacità a favorire una rapida evoluzione delle relazioni industriali in senso più funzionale alle reciproche esigenze rendano difficile, nel breve periodo, ogni prospettiva di miglioramento.

Per quanto concerne il tessuto della contrattazione, credo si debbano distinguere i problemi di metodo da quelli di contenuto, che in Fiat in questi ultimi tempi si sono intrecciati in modo quasi inestricabile, creando perplessità non solo in azienda ma anche fra gli osservatori, gli studiosi di problemi sindacali e i lavoratori.

In relazione al metodo, da qualche tempo è aperto il dibattito su una difficile scelta di fondo. Il sindacato da un lato sente l’esigenza di riassegnare un ruolo negoziale ai consigli, nella convinzione di acquisire nuovi spazi di contrattazione quindi recuperare il consenso perduto. D’altro lato è pero restio a rinunciare al ruolo pieno e totale di agente contrattatore che un sistema centralizzato come quello attuale gli garantisce, consapevole che la scelta di decentramento, in ultima istanza, lo esproprierebbe del potere negoziale per relegarlo ad un ruolo riduttivo e dal futuro incerto di “regolatore del sistema”.

L’opzione dell’azienda a questo riguardo è nota: rimaniamo favorevoli ad un impianto governato centralmente che non escluda la negoziazione decentrata ma le conferisca un ruolo applicativo e non acquisitivo. Per quanto riguarda i contenuti della contrattazione, va premesso che essi dovranno rimanere imperniati sul presupposto dello scambio, forte o debole in relazione alla qualità delle richieste e alla congiuntura aziendale.

Lo scambio non va demonizzato, come da qualche parte si tende a fare, ritenendolo l’ennesimo espediente per arginare le richieste sindacali: rappresenta infatti l’unica strada che consenta all’azienda di fare concessioni senza penalizzare la produttività. In tale prospettiva rientra a pieno titolo la nostra proposta, che è poi un’esigenza, di istituire un rapporto più elastico tra la crescita salariale e gli andamenti del ciclo economico dell’impresa.

È mia convinzione che nei prossimi anni, se non verranno sciolti questi nodi, il terreno delle relazioni industriali rimarrà magmatico e caratterizzato da una situazione di instabilità e incertezza, con crescenti difficoltà a concertare fra azienda e sindacato le azioni da intraprendere.

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