La Fiat Mirafiori

di Gianni Montani, responsabile dell’Ufficio stampa della Cgil regionale piemontese

Un’analisi anche parziale del Consiglio di fabbrica della Fiat Mirafiori non può prescindere dalla realtà di questa fabbrica; un gigante dai piedi d’argilla, in cui sono condensate tutte le false razionalità del modello industriale italiano del dopoguerra. Un impianto a ciclo completo per la produzione di automobili, estremamente rigido e compatto, incapace di adattarsi sia a una classe operaia che si emancipa dalla subalternità sia a un mercato contrassegnato dalla turbolenza e dalla concorrenza spietata. Al di là dei problemi strettamente funzionali, abbondantemente analizzati in altre sedi ben più qualificate, la sindrome da gigantismo caratterizza questo stabilimento, come’ peraltro le altre sezioni torinesi della Fiat, in quanto fabbriche del tutto particolari rispetto alla media delle imprese industriali che conosciamo.

Con i suoi 45.000 lavoratori circa la Mirafiori è una città nella città. In essa si esprimono le tensioni e gli stessi sbandamenti che coinvolgono l’intera società, senza quelle « mediazioni » che in altre aziende sono date da quella che comunemente si definisce « organizzazione », ossia una struttura compatta e in qualche modo « separata » che riesce a colmare gli scarti tra momentaneo disorientamento di massa e indicazioni della organizzazione sindacale stessa. Si ritiene spesso ed è vero, che ciò dipenda dalla ridotta presenza di organizzati al sindacato e alle altre organizzazioni democratiche. Si rischia però così di sottovalutare la specificità degli stabilimenti Fiat torinesi ed in particolare della Mirafiori. Per la sua dimensione, per il numero degli addetti, in questo stabilimento vengono a mancare le condizioni spontanee di socializzazione tra l’insieme dei lavoratori esistenti nella media delle fabbriche italiane, dove bene o male tutti ci si conosce, si vive una condizione comune, fatta di tante relazioni che costituiscono la socialità di un ambiente di fabbrica.

Alla Mirafiori non è così. Per le dimensioni, per il numero di uomini, ogni officina è praticamente una fabbrica. Una sezione è una grande fabbrica. In questa dimensione gli stessi gruppi sociali, si potrebbe dire i « ceti » in cui si differenziano i lavoratori di una stessa azienda (i capi, gli impiegati, gli specializzati, gli operai di serie, ecc.) tendono oggettivamente a costituirsi in mondo a parte. Perché a seconda dei gruppi di appartenenza fanno orari diversi, entrano da portinerie diverse, mangiano in mense diverse. La stessa dimensione « incontrollabile » dello stabilimento, la spersonalizzazione cui è sottoposto chi vi lavora, danno una dimensione del tutto particolare alle aggregazioni per piccoli gruppi che vi si realizzano peraltro tradizionali in ogni ambiente di fabbrica. In questo contesto il Consiglio di fabbrica ha un compito decisivo di unificazione di questo tessuto sociale Un ruolo sempre da conquistare sul campo, sulla base delle scelte concrete che si operano.

Il Consiglio di fabbrica della Mirafiori, il « Consiglione », è composto di circa 800 delegati, eletti su scheda bianca in tutte le squadre di cui è composto lo stabilimento. Chi sono? Una classificazione precisa, secondo i canoni sociologici, non esiste. Si può dire orientativamente che i delegati sono prevalentemente immigrati dal Mezzogiorno, e pertanto rappresentano uno spaccato reale della forza lavoro di questa fabbrica. Non a caso sono anche molti i delegati provenienti dal Veneto, che ha rappresentato la prima area di immigrazione nella zona torinese. La presenza di delegati di origine piemontese è prevalentemente rappresentativa delle aree di lavoro specializzato o qualificato. Approssimativamente si può dire che nella composizione della struttura sindacale si riflette la composizione anche etnica dei lavoratori di questa fabbrica. Lo stesso si può dire per l’età media, con una accentuazione però di delegati appartenenti alla fascia di età 25-35 anni. Un punto debole, considerando la rappresentatività in termini sociologici (che comunque sappiamo non essere certo esaustiva), sta nella presenza delle donne tra i delegati Infatti l’assunzione massiccia di personale femminile, che ha rappresentato la novità più importante nella composizione di classe alla Mirafiori negli ultimi anni, non ha compiutamente trovato, nonostante i passi avanti compiuti nella ultima rielezione del Consiglio, una rappresentatività effettiva.

Come funziona questo organismo di fabbrica? Come è ovvio, il « Consiglione » in quanto tale interviene principalmente sulle grandi questioni o nella definizione di un orientamento generale. Il grosso dell’attività, specie in relazione alle condizioni di lavoro, si sviluppa attraverso i Comitati di officina o di settore (carrozzeria, presse, meccaniche, enti centrali). I Consigli di settore hanno ognuno un proprio Esecutivo che gestisce la contrattazione con la rispettiva direzione di sezione.

Qualche elemento in più sulla realtà dei delegati della Mirafiori, o meglio della Fiat, ci viene dai risultati dell’ultima rielezione generalizzata che è stata fatta nella primavera del 1980. Non disponendo di un’analisi specifica del Consiglione della Mirafiori, ma considerando pressoché generalizzabile questa realtà al resto dei grandi stabilimenti Fiat torinesi, si possono fare alcune considerazioni « orizzontali » tra Mirafiori, Rivalta, Lingotto, Lancia di Chivasso, Spa Stura.

Un primo elemento che risulta evidente è l’alto livello di rappresentatività degli eletti dai lavoratori. In media hanno partecipato alla votazione percentuali di lavoratori che variano dall’80 al 90%. Se si considera che mediamente il lavoratore eletto come delegato ha ottenuto una percentuale di consensi che varia dal 60 all’80%, possiamo vedere come l’indicazione del proprio rappresentante sia il frutto di una scelta ponderata e consapevole, spesso il prodotto di una vera e propria discussione, seppur condotta con modalità del tutto informali. Non a caso il numero delle schede bianche è stato ridottissimo, così come sono mosche bianche i gruppi omogenei che non hanno eletto il loro rappresentante nel Consiglio. L’andamento del ricambio dei delegati offre un altro elemento di interessante valutazione. Si potrebbe pensare che una rielezione con percentuali di adesione così alta e con una concentrazione di questo genere sulle preferenze (considerando che si tratta di elezione su scheda bianca), sia il prodotto di un rapporto fiduciario tra gruppi di lavoratori e singolo delegato più che tra lavoratori e delegato inteso come istituto; ma non è così. Nell’ultima rielezione i Consigli di fabbrica della Mirafiori hanno profondamente cambiato faccia: circa la metà dei delegati sono nuovi rispetto al precedente Consiglio. Questa precisazione è necessaria perché non necessariamente il delegato nuovo eletto nell’80 è un delegato alla prima nomina. Certamente i nuovi eletti significano in molti casi nuovi assunti in relazione a un profondo mutamento dei lavoratori di questi stabilimenti (nella primavera ’80 la Fiat aveva appena concluso la fase delle assunzioni di massa che hanno portato oltre 20.000 nuovi lavoratori negli stabilimenti), ma ci sono casi di rielezione di operai che avevano già fatto questa esperienza, non erano più stati eletti o non avevano più accettato l’incarico, e che adesso sono stati di nuovo scelti come delegati.

Abbiamo già indicato che, nonostante i passi avanti compiuti, la rappresentanza femminile nel Consiglio è nettamente al di sotto della presenza delle donne nelle officine (ed è questa una questione che andrebbe indagata con ben maggiori approfondimenti).

L’elemento « politico » che è emerso con maggiore forza nella rielezione della primavera scorsa è la unitarietà del modo con cui questa verifica è stata vissuta dai lavoratori e dai delegati. Il che è certamente il prodotto di una scelta della Flm torinese che ha saputo combattere efficacemente ogni tendenza alla « conta » tra organizzazioni, ma costituisce anche la conferma di un elemento costitutivo dell’esperienza dei delegati: il loro essere una struttura indivisibile per organizzazioni, pena la loro morte. E’ un dato dimostrato dall’esperienza di ogni giorno. Anche nei momenti più travagliati, anche di divisione, è ben difficile classificare le diverse posizioni per schieramenti di organizzazione sindacale o anche partitica.

Il terreno su cui i delegati si sono conquistati la legittimazione si è sviluppato principalmente intorno alle questioni dell’organizzazione del lavoro, specificamente il controllo e la contrattazione sulle condizioni di lavoro. Vorremmo solo mettere in evidenza come l’esperienza dei delegati alla Mirafiori, nata proprio con la conquista dei primi strumenti di intervento e di controllo dei lavoratori sui carichi di lavoro (accordi ’69 e ’71) abbia via via ampliato il suo spazio di iniziativa fino a coprire l’insieme della condizione lavorativa — dal controllo e la contrattazione del rapporto organici – produzione, all’ambiente, ecc. — in uno stretto intreccio tra contrattazione aziendale, di reparto, nazionale, e soprattutto tra contrattazione formale e informale, che ha cambiato la realtà di questa fabbrica. Si tengano presenti da questo punto di vista, gli interventi per la modificazione strutturale dell’organizzazione del lavoro nelle fasi finali della lastroferratura (unificando le operazioni di revisione, riparazione, e delibera) fino alla contrattazione dei programmi produttivi. Una contrattazione e una modificazione che nei fatti, assieme all’intervento dell’elettronica nella regolazione dei mix produttivi, ha messo in crisi la figura del capo squadra come controllore degli uomini, imponendo una ridefinizione del ruolo di questa figura. Non è un caso che uno degli elementi di maggior tensione tra i quadri aziendali sia proprio il potere di intervento dei delegati su materie che prima erano gestite insindacabilmente dai capi.

L’esperienza della contrattazione dei programmi produttivi segna il passaggio dalla fase della rigidità (come risposta a una situazione precedente di uso elastico e unilaterale della forza lavoro da parte dell’azienda) alla fase della contrattazione della flessibilità. A fronte della necessità oggettiva di operare variazioni produttive anche in relazione agli effetti della crisi petrolifera, per evitare processi di mobilità selvaggia che in un’azienda dalle dimensioni della Fiat è molto più drammatica che altrove, il Consiglio di fabbrica si è conquistato il diritto di contrattare ogni tre mesi i programmi produttivi di stabilimento, modello per modello di prodotto. Su questa base, si adeguano gli organici in relazione alle singole produzioni evitando interventi unilaterali dell’azienda. In questa direzione si è già incominciato a intervenire, relativamente alle specifiche condizioni di lavoro fino ai grandi temi della politica industriale: quando, per esempio, la Fiat voleva incrementare a dismisura la produzione di motori nelle officine di meccanica di Mirafiori determinando un peggioramento delle condizioni di lavoro degli addetti, si è riusciti a conquistare il dirottamento di queste produzioni nello stabilimento di Termoli Imerese con un’iniziativa unitaria del Consiglio della meccanica di Mirafiori e di quello della Fiat di Termoli. Lo stesso senso ha avuto anche l’esperienza dei 6 sabati della 127, che tanto fecero a suo tempo discutere, con il blocco a Torino della produzione suppletiva e la richiesta di sviluppare la produzione alla Fiat di Cassino.

Su questi terreni i delegati, come istituto di contrattazione, hanno consolidato una lunga esperienza. Più difficile si manifesta l’intervento quando ci si trova di fronte a condizioni del tutto nuove, come il caso del Lam (la linea asincrona di montaggio motori) o il robot-gate (il sistema elettronico di assiemaggio della scocca, anche per il carattere ancora di sperimentazione che tali forme di organizzazione della produzione conservano.

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